Corriere della Sera del 12 ottobre 2007, pag. 2
di Aldo Cazzullo
Alla vigilia delle primarie che designeranno il primo segretario del Pd, Walter Veltroni (il candidato che gode i favori del pronostico) racconta quale sarà il profilo del nuovo partito.
«Dobbiamo guardare al futuro e abbandonare le nostalgie, superando le risse e i conservatorismi che ci tengono prigionieri». Veltroni smentisce il dualismo con Prodi.
«Ci sarà una distinzione di ruoli. Non mi si può rimproverare di affrontare i problemi».
Walter Veltroni, con ogni probabilità lei, tra due giorni, sarà il primo segretario di un partito nuovo, che unisce i riformisti italiani. Quando ha cominciato a pensarci, a ritenerlo possibile?
Walter Veltroni, con ogni probabilità lei, tra due giorni, sarà il primo segretario di un partito nuovo, che unisce i riformisti italiani. Quando ha cominciato a pensarci, a ritenerlo possibile?
«Il voto di domenica realizza il sogno della mia vita politica. È un'ispirazione che ho sempre avuto dentro di me: in fondo, sono sempre stato convinto che prima o poi in Italia sarebbe nato un partito democratico. Un campo in cui sarebbero confluite persone, culture, energie diverse, e si sarebbero contaminate fino a diventare una cosa sola: senza nostalgie, né personalismi, né correnti. Questa è l'introduzione al mio libro su Bob Kennedy, Il sogno spezzato: "Il kennedysmo è stato, con la socialdemocrazia svedese, la più alta forma di governo sperimentata dai democratici in società occidentali avanzate (…). A questa specie non appartengono, per me, i governi socialisti che si sono succeduti negli Anni '80 in Europa". Siamo nel '93. Due anni prima dell'Ulivo».
Finisce domenica la lunga stagione del comunismo e del postcomunismo?
«No. Quella storia è finita nell'89, in modo drammatico e vitale. Richiamarla in causa oggi significa cedere alla nostalgia intellettuale, continuare a interrogarsi su transizioni e successioni. Ora l'approdo è stato raggiunto. Una lunga fase del viaggio si è conclusa. Comincia un'altra storia, un altro viaggio, con nuovi compagni e nuove rotte. È il tempo di tentare la grande espansione, la ricerca di una soluzione razionale, realista, innovatrice, di cui il paese ha bisogno. Un grande partito di popolo, che parli delle cose di cui parla il popolo e non delle cose di cui parlano i politici. Che costruisca una democrazia meno pesante e meno invadente, più lieve e più veloce».
È sicuro di non portare con sé alcuna zavorra? Le è stata rinfacciata quella frase, «non sono mai stato comunista».
«Ho già risposto mille volte a questa domanda, e quindi è già noto che non ho mai avuto alcuna simpatia per l'ideologia comunista e l'Urss, mentre ne ho avuta molta per Berlinguer. Ma a me interessa il futuro più del passato. Se questo paese ha un difetto, è il demone della nostalgia: che si avvinghia alle gambe, che blocca i movimenti. È tipico in particolare della sinistra, poi, pensare che ieri sia sempre meglio di oggi. Ma quanti liquami ieri scaricavamo nei fiumi e nei mari? Che aria respiravamo prima che arrivassero le auto con i motori euro 4? Quanti coloranti e additivi mangiavamo con i cibi? Chi avrebbe detto che avremmo potuto comunicare con il mondo grazie a Internet, o che la durata della vita sarebbe cresciuta di tre mesi ogni anno? Domenica si affaccerà alla politica una generazione nuova, ragazzi nati dopo l'89, che non leggono i giornali perché i giornali sono fatti per chi era già vecchio mezzo secolo fa».
Sono i ragazzi che a Roma all'uscita del liceo Mamiani hanno snobbato Ettore Scola, suo ambasciatore.
«Anche questa è una semplificazione dei giornali. Ho parlato con tantissimi sedicenni, e posso assicurarle che sono come i sedicenni sono sempre stati. Una parte è impegnata in politica; ma alla maggioranza della politica importa poco o nulla. Era così anche nel '68: nella mia classe c'erano quelli con l'eskimo e quelli che andavano a vedere la Roma o la Juve. Il problema è che i ragazzi cui la politica interessa sono lasciati soli, e la loro ricerca è perciò ancora più eroica. La politica parla d'altro, o si rivolge a loro con il linguaggio futile della tv».
Lei di tv non era un grande appassionato? Perché ora è così critico?
«Potrei passare mezza giornata a parlare delle qualità della televisione. Ma sono angosciato per il crollo di qualità della tv italiana. La logica degli ascolti ha fatto perdere la testa. Possibile che i talk show abbiano dedicato 18 puntate a Garlasco o al volo aereo di Mastella a Monza, e neppure una sulla Birmania, una terra in lotta per la libertà? E questo solo per la paura di perdere il 3% di share?».
Altre parole che le sono e le saranno rinfacciate, quelle sul futuro in Africa.
«Non si decide mai da soli. Ho detto che non avrei cercato altri posti di potere. Ma quando vedi realizzarsi il sogno della vita, e vedi che tutti— tutti, compresa Rosy Bindi — si voltano verso di te per chiederti di impegnarti in prima persona, non puoi fare finta di nulla. La mia idea della vita non cambia; resto convinto che non si esaurisca nella dimensione politica. Per questo non rinuncio al mio progetto futuro. Oggi la mia missione è portare più gente possibile a votare domenica. È trasmettere il mio entusiasmo, perché questa occasione non sia sprecata. È rilanciare l'orgoglio di essere italiani. Questo è un paese fantastico, che ha saputo reagire al terrorismo, alle svalutazioni della lira, all'assassinio di Falcone e Borsellino, al crollo dei partiti storici. Un paese pieno di imprenditori coraggiosi, di ragazzi meravigliosi come gli studenti che ho incontrato oggi, ragazzi del Sud che vogliono farcela, di soldati che fanno il loro dovere. Un paese che ha bisogno di un sistema politico alla sua altezza, che lo aiuti a imboccare la via della fiducia».
Lei non pensa che l'Italia sia un paese in declino?
«No. Al termine di questo lungo viaggio penso invece sia un paese che attende una risposta, che chiede una nuova classe dirigente, che non ascolta più il linguaggio dei talk show e non sopporta più le risse e i conservatorismi che lo tengono prigioniero. E' un paese bloccato da quindici anni in una dialettica sterile, Berlusconi contro la sinistra, che noi dobbiamo cercare di superare, anche in modo unilaterale».
Ora c'è un elemento in più. Grillo. L'antipolitica, come la chiamano. «Distinguiamo. Un conto è il libro di Stella e Rizzo, che per il 90% dice cose giuste e denuncia storture da correggere. Un altro è chi mette insieme l'attacco xenofobo ai Rom, gli insulti agli ebrei ospitati sul blog, il no alla Tav. Ma vedo segnali in controtendenza. L'esito del referendum sul welfare dimostra che i lavoratori sono disposti più di qualsiasi altro all'innovazione».
Non dimostra pure che finora la sinistra riformista ha ceduto troppo terreno alle pretese del l'altra sinistra?
«Significa che è possibile raccogliere un'ampia maggioranza sui nostri obiettivi: coniugare crescita economica e lotta alla povertà, produzione e redistribuzione della ricchezza, maggiore reddito e pari opportunità. In ogni occasione i cittadini ci hanno detto di fare così. Intendo prendere le questioni di petto. Senza timidezza».
Liberazione, il giornale del Prc, uscirà in edicola con una sorta di dossier anti-Veltroni. Cos'è successo tra lei e Sansonetti?
«È una cosa inusitata nella storia della sinistra; ma fa parte del gioco, della dialettica dell'informazione. I dirigenti mi assicurano che Rifondazione non è coinvolta».
Un tempo lei era considerato tra i più intransigenti nei confronti di Berlusconi. Le cose sono cambiate? Qual è oggi il suo rapporto con lui?
«Credo di essere stato tra i primi a capire cosa fosse il berlusconismo, e quale mutazione implicasse nel senso comune e nel sistema di valori. Detto questo, ho contrastato e contrasterò Berlusconi con grande rispetto; perché voglio vivere in un sistema politico in cui non si fischia e non ci si insulta, in cui se Bush entra nel Senato a maggioranza democratica tutti i senatori si alzano in piedi. Resto convinto che dall'altra parte siano messi peggio: la Mussolini va in piazza accanto a Fini; Storace manda le stampelle a Rita Levi Montalcini; Bossi irride il tricolore; e continuo a non capire cosa ci facciano i moderati in quella compagnia. Ma non vedo perché ci si debba stupire, perché mi si debba guardare come un marziano se riconosco il valore non solo di Pisanu e Tabacci, ma di Veronica Berlusconi o di Renata Polverini leader dell'Ugl. Dov'è la notizia? Che cos'è questa conflittualità tribale e neoideologica, per cui le ragioni e i torti sono tutti da una parte o dall'altra? Chi, di fronte a temi come l'ingegneria genetica, la scienza, i diritti umani, può credere di avere tutte le risposte? Per me l'avversario va sempre rispettato. E bisogna scrivere con lui le regole del gioco»
Ha colpito che lei abbia indicato in otto mesi il tempo per fare le riforme; come se fossimo allo scadere della legislatura.
«Non è così. Intendevo dire che c'è un pacchetto di riforme su cui il consenso è molto diffuso: ridurre il numero dei parlamentari alla metà o poco più; una sola Camera che legifera; precedenza ai disegni di legge del governo. Queste riforme si possono approvare in otto mesi, altrimenti la gente resterà allibita: se siete tutti d'accordo, perché non lo fate?».
Resta un fatto: nella campagna per le primarie è emerso un dualismo tra lei e Prodi che da domenica non potrà che aggravarsi. Su tasse, debito pubblico, indulto, avete detto cose diverse.
«Non c'è nessun dualismo. Ci sarà una distinzione di ruoli: perché il ruolo del premier di un governo di coalizione è, e dev'essere, diverso da quello del segretario del primo partito della coalizione. Non si può chiedere a Prodi di farsi esclusivamente portatore dell'identità del Pd; come non si può chiedere al segretario del Pd di farsi solo carico della mediazione che spetta al premier. Oggi noi siamo chiamati a definire l'identità di un grande partito, che ha davanti una prospettiva non di tre anni ma di decenni, ed è giusto affrontare la questioni di lungo periodo. Trovo assurdo essere rimproverato per aver affrontato i problemi del paese; di cosa avrei dovuto parlare? Mi hanno accusato di essermi spinto troppo in là. Invece sono orgoglioso di aver impresso un'accelerazione di programma su tasse, sicurezza, assetto istituzionale. Abbiamo mosso grandi passi avanti, senza dire mai una sola parola contro i concorrenti. Io ho cercato di parlare al paese e di accendere entusiasmo. Altri, e mi dispiace, hanno fatto il contrario: poco o nessun programma, molti attacchi. Non credo che questo abbia giovato. Pazienza; va bene così».
È vero che nel 2005 in tanti vennero a chiederle di scendere in campo contro o al posto di Prodi?
«È vero. Vennero in tantissimi. E a tutti risposi di no. Perché in quel momento c'era una grande convergenza attorno a Romano. Perché era giusto che Romano riprendesse il lavoro non concluso nel suo primo triennio al governo. Credo di saper dire dei no e dei sì, quando è il momento. Non sono l'uomo del "ma anche"; dico cose inequivoche e libere da vecchi schemi. E cercherò di rispondere alla domanda di accelerazione riformista che viene dalla società».
Non solo la Bindi a sinistra e Tremonti a destra, ma molti osservatori temono o credono che a lei convenga votare prima possibile. Anche per non farsi logorare dall'impopolarità del governo Prodi.
«No. A me, o meglio al partito democratico, conviene che Prodi finisca il suo lavoro. La confusione politica, la frammentazione, la litigiosità fanno da cortina fumogena alle molte conquiste di questo governo. Che in un anno e mezzo ha ridotto il debito e il deficit, condotto una politica estera positiva su pena di morte e Libano, varato le liberalizzazioni, trovato un importante accordo sul welfare. E mi fa piacere che due delle proposte che ho avanzato nell'incontro con gli imprenditori a Padova, il taglio di 5 punti dell'Ires e la tassazione forfettaria per le piccole imprese, siano state accolte. Il governo Prodi che conclude la legislatura, e il Parlamento che approva le riforme costituzionali: ecco il mio scenario ideale».
E l'azzeramento dei ministri proposto dalla Finocchiaro?
«Al riguardo ho detto una cosa molto semplice: decide il premier. Il Pd lo appoggerà qualunque sia la scelta: sia se deciderà di dimezzare i ministri, sia se deciderà di non farlo. Il presidente del Consiglio, e presidente del Pd, apprezzerà di avere un partito che non chiede posti, ed è anzi disposto ad averne meno».
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