giovedì 31 maggio 2007

Abbiamo scritto a Paola Caporossi

Cara Paola,
vogliamo rallegrarci con te per nomina nel Comitato 14 ottobre per la costituente del Partito Democratico. Siamo contenti per te, ma anche perché rappresenta un riconoscimento politico importante per l’Associazione, per il lavoro svolto di promozione, di sensibilizzazione per il Partito Democratico.
Quando un anno fa abbiamo iniziato, forse non credevamo di farcela e soprattutto così rapidamente!
Ci sentiamo tutti e tutte protagonisti con te ed abbiamo la presunzione di credere che la Toscana, e Livorno in particolare, abbia contribuito, in modo spesso originale, alla costruzione di nuove reti di relazione, a dare concretezza a modi, luoghi, comunicazione diversi di fare politica che hanno avvicinato nuovi soggetti all’agire politico, alla crescita dell’Associazione , alla sua visibilità e riconoscibilità .
E’ finalmente giunto il momento di dare voce a chi ha creduto fin dall’inizio in questo processo, dare voce alla speranza, alla passione all’entusiasmo.
E’ un’occasione straordinaria che richiede pazienza, determinazione, generosità e siamo certi che non ti mancheranno.
Sono necessarie scelte coraggiose di non ritorno .
Non bisogna deludere ancora una volta le aspettative di cambiamento e rinnovamento, non dobbiamo incorrere negli errori consueti; programmare a freddo una fusione poteva essere possibile in campagna elettorale; ora è un altro tempo. Dobbiamo trovare risposte originali ed autentiche al deteriorarsi del rapporto tra politica e cittadini, una politica caduta spesso nel discredito, considerata qualcosa di cui non fidarsi troppo.
Siamo sicuri che la tua sensibilità ti porterà, oltre che a dare un ottimo e consistente contributo, ad essere attenta e vigile verso gli ostacoli e i trabocchetti che certamente si presenteranno.
Siamo pronti a sostenere te e tutti e tutte coloro che sono nel comitato dei 45, sinceramente motivati a portare avanti un serio, completo ripensamento delle categorie di interpretazione della realtà, un rinnovamento della politica non solo nei suoi linguaggi di comunicazione e di propaganda, ma nella sostanza dei temi che tratta, riguardanti il nostro benessere, la nostra salute, la nostra sicurezza e il nostro atteggiamento sulla pace e sulla guerra, sul rapporto tra le diverse culture, le diverse fedi e le diverse etnie… O si fa questo passo di fantasia, oppure l’illusione di resistere stando bene, facendoci gli affari nostri, chiudendoci semplicemente nella difesa della nostra quotidianità, verrà spazzata via, perché è una risposta che non funziona. Può funzionare qualche anno ma non funziona sul ciclo di una vita.
Buon lavoro Paola!

Daniela Miele Claudio Frontera Silvia Di Batte Claudio Vanni

mercoledì 30 maggio 2007

A Livorno Venerdi 1 Giugno

L’on. Donata Gottardi (Ds) è stata autrice, insieme ad altri 11 “Saggi”, del già famoso “Manifesto per il Partito Democratico” ed è oggi una dei 45 componenti del Comitato che prepara le regole per l’elezione dell’Assemblea costituente del Partito Democratico.
Venerdi 1 giugno sarà a Livorno, per incontrare tutti i cittadini interessati alla nascita del Partito Democratico e discutere del “Manifesto”, un testo propositivo di principi e valori, aperto e provvisorio nel percorso fondativo del nuovo partito, che molti hanno giudicato, in questi mesi, in modo spesso affrettato e superficiale. Quella di venerdi è la prima occasione per discutere, a Livorno, del Manifesto, con una degli autori.
L’appuntamento è alla Circoscrizione 2, Scali Finocchietti 8, alle 21.
L’on. Gottardi sarà presentata da Daniele Bettinetti, dell’associazione “Incontriamoci”. Interverranno all’incontro anche Maurizio Paolini (Pres. Circ.2), Paola Caporossi (APD-Toscana), Daniela Miele (Ass.Incontriamoci-Livorno), Giorgia Beltramme (Segretaria Unione comunale ds) e Claudio Frontera ( segreteria regionale ds).
Da segnalare la presenza di Paola Caporossi, componente del comitato nazionale per la costituente del PD, in quanto coordinatrice dell’Associazione toscana per il PD.
La costituzione di un coordinamento toscano dell’Apd fu decisa in una riunione svoltasi a Livorno, a seguito della conferenza di Gregorio Gitti promossa, nella nostra città, nel novembre scorso.
Come dire, anche dalle iniziative delle Associazioni Livornesi per il nuovo partito, qualcosa è arrivato nel Comitato Nazionale del PD.
L’iniziativa di venerdi 1 giugno è promossa dai circoli livornesi di “Incontriamoci” e “Apd”, dai gruppi consiliari Ds e Margherita della Circoscrizione 2 e dall’Unione Comunale Ds.

lunedì 28 maggio 2007

A Roma il 2 Giugno per il PD

il 2 GIUGNO si svolgerà l’iniziativa per il Partito Democratico verso il 14 ottobre, promossa dall' APD e “Incontriamoci”.
L’incontro si terrà a Roma dalle 15 alle 17.30 - 18.00 al Teatro Quirino in via delle Vergini (una parallela di via del Corso, non lontano da Palazzo Chigi e dalla Fontana di Trevi) e avrà per tema: “Partito Democratico: partecipo, decido, cresco”
Dialogheranno con noi, il sindaco di Roma Walter Veltroni, Arturo Parisi, Giovanna Melandri, Giulio Santagata e il sindaco di Bari, Michele Emiliano.
E’ prevista la partecipazione di Romano Prodi, che concluderà i lavori.
Per vedere il programma dettagliato cliccate su questo sito www.propd.net, che ha fatto da punto di coordinamento organizzativo

Manifesto per il Partito Democratico, un documento per discutere insieme e partecipare

Puoi leggere o scaricare il Manifesto del Partito Democratico (formato PDF) collegandoti al sito
www.incontriamoci.fabbricadelprogramma.it

Il leader necessario al partito che nasce

La Repubblica del 28 maggio 2007
di Edmondo Berselli
E’ vero che ogni decisione riguar­dante la marcia di avvicinamento al Partito democratico assomiglia a un appuntamento con la teologia. E quindi anche la discussione sui tempi della scelta del leader potrebbe apparire come una nuova disquisizione bizanti­na, uno di quei problemi autoriferiti che appassionano i corridoi di partito e la­sciano indifferente se non infastidita l'o­pinione pubblica. Ma se tre figure di rilie­vo nell'area «democratica», vale a dire Dario Franceschini, Walter Veltroni, e ora anche Anna Finocchiaro con la sua allure di leader potenziale, si esprimono a chiare lettere affinchè la designazione del leader sia contestuale all'assemblea di fondazione del partito il 14 ottobre, vuoi dire che su questo specifico punto il Partito democratico si gioca qualcosa di molto significativo.
Andrà anche sottolineato che è di qualche interesse che a movimentare la situazione del Pd siano tre espo­nenti che rappresentano anche un visibile stacco generazionale: ma al di là delle ambi­zioni personali, ciò che conta in questo momento è la volontà di non accontentarsi di un procedimento inerziale.
Fissare per ottobre la scelta del leader si­gnifica mobilitare tutte le componenti del partito invia di formazione, non solo il suo ceto dirigente.
Consegnare infatti alle élite interne la scelta delle procedure significherebbe re­plicare i meccanismi di cooptazione e spartizione che hanno caratterizzato, ad esempio, la composizione del comitato dei 45: con gli effetti grotteschi che si han­no allorché una decisione semplice deve essere assunta da un organismo pletorico.
Ora, se il Partito democratico ha una speranza nell'evolu­zione della politica italiana, questa spe­ranza dipende esclusivamente dalla pos­sibilità di coinvolge­re nel processo di fondazione settori il più possibile larghi di società civile. A questo punto serve a poco criticare anco­ra una volta il modo burocratico con cui si è avviata la crea­zione del nuovo par­tito. Non è inutile, piuttosto, ricordare che il coinvolgimen­to e la mobilitazione si ottengono non tanto con gli appelli e la retorica, bensì con la creazione di un partito aperto, in cui a ogni livello le cari­che e i ruoli siano contendibili, e in cui il giudizio diretto dei cittadini abbia un ruolo preminente.
Insomma per dirlo con una formula il Pd ha una chance se fin dalla primissima fa­se diventa il partito delle primarie: in cui non esistono feudi, primazie, poteri indi­scussi, ma un confronto aperto e traspa­rente fra personalità in competizione.
Dentro questa struttura di partito «sca­labile», la scelta della leadership è un mo­mento cruciale. E allora, pensando al 14 ottobre, un conto è un evento politico in cui si consuma un incontro fra gruppi di­rigenti, con una pallida cornice di popolo, e un altro conto invece è un processo costituente entro il quale le figure di mag­giore spicco si misurano a caldo in un'are­na democratica, su un orizzonte che non prevede né tatticismi né risultati precon­fezionati.
Tuttavia non si tratta soltanto di un me­todo funzionale a ravvivare un esperi­mento politico che ad alcuni oggi appare artificiale. Come ha ricordato Veltroni, la creazione del Pd attraverso la prova del fuoco dell'elezione del leader costituisce una riposta efficiente e responsabile a quella «crisi di democrazia» che minaccia di trasformarsi in crisi di legittimità della politica intera.
Che dentro il mondo ulivista, e in parti­colare nell'ambiente prodiano, perman­gano dubbi e perplessità sulla scelta della leadership, può essere comprensibile, an­che se non sono chiarissime le ragioni che inducono a frenare. Oggi il centrosinistra è in crisi di consenso, e le elezioni ammi­nistrative in corso potrebbero assestare all'Unione uno scossone ulteriore, ridare fiato a Berlusconi, riportare all'ordine del giorno le velleità di spallata. Quindi il go­verno, il premier Prodi, e il baricentro po­litico dell'alleanza (cioè Margherita e Ds) avrebbero bisogno in realtà di una reazio­ne forte, che funga da ubi consistenti nella prossima difficile stagione, e di un impe­gno riscontrabile della loro constituency, che faccia da innesco alla mobilitazione dell'opinione pubblica di riferimento.
Il Partito democratico è una iniziativa in bilico, in questo momento. Ha bisogno di ritrovare un impul­so, una direzione, un obiettivo. Finora ha perso di vista il coin­volgimento della so­cietà esterna alla po­litica, ha celebrato due congressi sepa­rati di partito, ha vi­sto una sorta di scissione a sinistra che genererà probabil­mente un altro parti­to. Se si perdesse an­che l'occasione del­l'assemblea di fon­dazione, e l'effetto simbolico ed emoti­vo che verrebbe introdotto dalla scelta del leader, bisogne­rebbe davvero rasse­gnarsi a un'espe­rienza che nasce solo come una variante d'opera nel sistema politico dato.
Ma a perdere que­sta opportunità, che cosa rimarrebbe per i riformisti, i «demo­cratici», i modernizzatori del centrosinistra, se non un lento passaggio che ri­schia di concludersi nella banalità?

Chi vince le primarie poi fa il premier

da Corriere della Sera del 28 maggio 2007
di Michele Salvati
L’idea — quella del Partito de­mocratico — era buona e con­tinua ad esserlo. Non si può dire però che vengano trascurate an­che le più piccole occasioni per com­prometterne il fascino o la stessa cre­dibilità. L'ultima poi non era così pic­cola: si trattava di costituire un comi­tato il quale affrontasse i numerosi problemi politici e organizzativi che devono essere risolti affinchè vada a buon fine la fase costituente, quella che dovrebbe condurre alla festa de­mocratica del 14 ottobre: l'elezione dei delegati all'assemblea costituente. Ne abbiamo visto l'esito: un comitato troppo numeroso per essere operati­vo e allo stesso tempo troppo piccolo e sbilenco per essere rappresentativo, per evitare le recriminazioni e le pole­miche che ci sono inevitabilmente sta­te.
Cosa fatta, capo ha. Veniamo al punto cruciale, quello sul quale si gio­ca l'intera credibilità politica della fa­se costituente e dunque dello stesso Partito democratico. Le primarie del 14 ottobre saranno una cosa molto di­versa da quelle che si tennero due an­ni fa nella stessa data e registrarono l'incredibile partecipazione di più di quattro milioni di persone. In quell’occasione l'intero popolo del centrosi­nistra, alla vigilia di una scadenza elet­torale vissuta come decisiva, partecipò in massa per mandare un semplice messaggio: il candidato premier è Ro­mano Prodi, state tutti uniti e sconfig­gete il centrodestra. Le primarie del prossimo ottobre assomiglieranno as­sai di più ad un congresso all'aria aperta. Non ci sarà una scadenza elet­torale imminente, non parteciperà l'intero popolo del centrosinistra ma solo quella parte che si identifica col progetto del partito democratico, il governo non sta vivendo un momen­to esaltante e le polemiche tra i diversi ingredienti del futuro partito — laici e cattolici, liberali e socialdemocratici «tradizionali» — non sembrano attenuarsi. Motivare una gran massa di persone a recarsi ai gazebo, a iscriver­si e a votare non sarà facile. E senza una partecipazione massiccia, netta­mente superiore alla sommadegli iscritti ai due principali partiti, il parti­to democratico nascerà male.
In queste condizioni, com'è possibi­le motivare alla partecipazione un gran numero di persone? Lo sa anche un bambino: convincerle che il loro voto conta. Conta nel definire l'indi­rizzo politico del partito. Conta so­prattutto nell'identificarne i supremi dirigenti, le persone che guideranno il partito. Ed è questo secondo aspetto, l'aspetto personale, quello che ha l'im­patto maggiore in termini di motiva­zione, quello che avvicina un congres­so all'aria aperta ad una elezione pri­maria. È quindi essenziale che si con­frontino —a livello locale, ma con apparentamenti a livello regionale e na­zionale — liste diverse, ognuna con i suoi candidati al congresso e possibil­mente con leader di riferimento nazionali, e che costoro si mettano tutti in gioco, dopo una campagna elettorale che faccia capire ai potenziali votanti quali sono le loro posizioni sui princi­pali problemi che il partito dovrà af­frontare. Ovviamente non saranno posizioni radicalmente diverse, altrimenti non starebbero nello stesso par­tito. Ma saranno diverse quanto ba­sta per consentire ai votanti di sceglie­re.
Se i votanti sceglieranno tra perso­ne, non potrebbe da subito scapparci fuori il «leader» — chessò —, il primo firmatario della lista più votata? Op­pure, come mi sembra sostenere Franceschini, con una apposita votazione in parallelo? Forse, per stimolare la partecipazione, è sufficiente la con­correnza tra diverse liste e diverse per­sonalità, e lasciare poi al congresso l'elezione degli organi dirigenti. Ma, a meno di non voler prendere in giro i votanti, mi sembra difficile che il loro voto sia senza conseguenze: se saran­no i delegati al congresso a eleggere questi organi, riemergeranno i con­sensi espressi nelle primarie e questi influiranno sulla scelta del leader, o segretario del partito, o come si chia­merà. Ma dovrebbe essere chiaro che gli organi dirigenti eletti da questo congresso hanno il compito di orga­nizzare il neonato partito e che il lea­der eletto da questo congresso — se non direttamente nei gazebo — sarà il candidato premier nelle future ele­zioni politiche. Altrimenti, perché an­dare a votare?

Lerner: non sono più prodiano. E punto sul referendum

da Corriere della Sera del 28 maggio 2007
di Monica Guerzoni
«Per una decina d'anni ho fatto il Pippobaudo dell'Ulivo, ho passato il microfono ai leader, li ho accompagnati nelle campagne elettorali sempre pagandomi l'aereo e l'albergo, rifiutando posti in Parlamento e incarichi importanti come il sindaco di Torino, perché io ho il senso del limite, so che non è il mio mestiere...».
E adesso, Gad Lerner? Ora che un incarico politico lo ha accettato ed è uno dei 45 «saggi» del Pd? «Sono stupito. Mi hanno colpito le reazioni così indispettite di militanti e dirigenti, che siano Chiamparino o i giovani della Margherita. Scoprono oggi che questo comitato è, speriamo, l'ultimo degli organismi designati dall'alto, per decisione esclusiva di 3 o 4 persone e con un meccanismo per nulla democratico? La cooptazione scatena inimicizia».
Un momento, i «44 gatti», come vi hanno ribattezzati, li hanno scelti Prodi, Fassino e Rutelli. «Forse si sono consultati con D'Alema, Parisi e Veltroni, ma è irrilevante. Hanno fotografato i rapporti di forza nei partiti ed è la realtà da cui dobbiamo distaccarci».
Una critica severa, visto che lei è stato designato da Prodi. «Prodi è la persona più adatta a governare questo Paese.Mi rendo conto però che una parte decisiva del suo disegno politico è fallita. Per costruire la coalizione ha dovuto soggiacere a una logica che ha portato a una ulteriore degenerazione della politica, tanto che io vedo il 14 ottobre come l'ultima possibilità per una rivoluzione democratica ».
Non voleva rivoluzionarlo col referendum, il sistema? «Io li vedo insieme, 14 ottobre e referendum elettorale».
Prodi lo teme, dicono. «Non è detto che il referendum vada in direzione della stabilità, sono consapevole che il referendum può produrre fibrillazioni sul governo, ma c'è un problema di democrazia molto più importante della sorte di Prodi».
Detto da un prodiano storico... «Io ho il dovere di dimettermi da qualsiasi denominazione frazionistica. Prima ci chiamavano ulivisti, poi siamo diventati prodiani e dopo ancora parisiani, aiuto! È la politica italiana che ci spezzetta, io non sono più prodiano.
Gad Lerner non è più prodiano. Questa è una notizia. «Dopodiché penso che ora bisogna candidarsi e contarsi».
Scende in campo o allude alla tentazione di D'Alema di presentare una sua lista? «Io sono inadatto alla politica professionale, non è il mio lavoro e non lo farò in futuro. Non so cosa farà d'Alema, leggo che Chiamparino pensa a una lista del Nord ed è la benvenuta. L'era degli aventi diritto è finita ed è lì che aspetto Chiamparino, di cui conosco il valore e il consenso elettorale. Vuole essere di più nel Pd? Faccia la lista e alla Costituente mi candido con lui, con Penati e con Cacciari, sempre che Massimo, stanco com'è ma lucido, ne abbia voglia ».
Lo sa che Chiamparino ritiene lei e Carlin Petrini non adatti a rappresentare il Nord? «Chiamparino ha votato per Fassino al congresso e i giovani della Margherita hanno acclamato Rutelli, quindi sanno con chi prendersela. Altro che ironie, Petrini e Tullia Zevi vanno ringraziati perché mettono a disposizione il loro tempo per riformare la politica attraverso regole draconiane».
Regole draconiane? «Regole inderogabili che ci sottraggono alle oligarchie e la prima è il limite ai mandati. Perché uno del livello di Giuliano Amato, che sarebbe stato un ottimo capo dello Stato, sente il bisogno di fare il ministro dell'Interno? Perché non può fare il padre nobile e lasciare il Viminale alla generazione di Marco Minniti?».
Amato e Prodi a casa? «Dobbiamo creare un ambiente in cui gli Amato, i Prodi e domani anche i D'Alema siano protagonisti stimati a prescindere dagli incarichi. Basta con la politica come vitalizio. E poi, visto che si parla del partito del Corriere e del partito di Confindustria, serve una legge che disincentivi gli interessi estranei alla proprietà dei giornali».
E le donne? Prodi le ha scelte in corsa e c'è chi dice che abbia sprecato un'occasione. «Anche Prodi ha le sue amicizie, i suoi obblighi, la sua "famiglia"... Quando si deciderà con regola scritta che le donne siano il 50% cederò il mio posto, il comitato dura tre mesi e non sarà il gruppo dirigente. Condivido lo stato d'animo di Pansa e Calabrese, dobbiamo spezzare la rigidità che sta uccidendo la politica. Un sistema appeso al signor Mastella, che ha 534 mila voti, è indecente e rischia una crisi senza ritorno. Per questo il 14 ottobre bisogna contarsi, si parte alla pari, nessuno è garantito».
Veltroni, Franceschini e Finocchiaro vogliono che a ottobre si elegga il leader, con le primarie. «Vogliono il leader subito? Prego, si candidino. La smettano di far melina, attendono una designazione che parta dalla nomenklatura? Devono giocarsela coi voti, fare le liste, cercarsi le alleanze. Sarò lieto se Finocchiaro, Veltroni, Franceschini o un amico giovane e in gamba come Filippo Andreatta si candidano alla Costituente con un progetto di riforma della politica. Ma Veltroni ci dica se firma o no il referendum, vista l'adesione di alcuni suoi amici».Pensa anche lei che leader del Pd e candidato premier non possano essere la stessa persona? «Chi si candida non sogna di fare il coordinatore, in tutto l'Occidente il leader del maggior partito coincide col premier. E il fatto che sia Prodi non impedisce ad altri di candidarsi. Sarebbe serio buttare il cuore oltre l'ostacolo...».

domenica 27 maggio 2007

Anti-partitismo non è anti-democrazia

Il Sole 24 Ore del 24 maggio 2007, pag. 12
Piero Ignazi
C’è aria di rivolta contro i politici e la politica? È alle viste una crisi poli­tica come quella di Tangentopoli? Gli allarmi di questi giorni meritano la risposta che diede Mark Twain leggendo il suo ne­crologio: una notizia un po' esa­gerata. Non per negare la realtà di un sentimento diffuso di in­soddisfazione, quanto perché esso si esprime attraverso varie modalità che è opportuno di­stinguere.
Il rapporto tra i cittadini e la politica si articola in almeno tre dimensioni diverse. Quella del­la relazione con il regime politi­co nel suo complesso, nelle sue caratteristiche di fondo (nel no­stro caso, la democrazia), che può essere di accettazione op­pure di rifiuto. Quella della rela­zione con il funzionamento del regime politico o del governo in carica, vale a dire se il regime in quanto tale o lo specifico go­verno al potere producono poli­tiche che soddisfano le doman­de e le aspettative dei cittadini. Quella della relazione con le istituzioni e, soprattutto, con gli attori politici, in primis parti­ti e uomini politici.
In tutto il mondo la prima di­mensione del rapporto cittadi­ni-politica non desta ormai al­cuna preoccupazione: la stragrande maggioranza dell'opi­nione pubblica ritiene che la de­mocrazia rappresentativa sia il migliore dei sistemi politici possibili. Nella vecchia Unio­ne Europea a 15, questa percen­tuale supera il 90%, e l'Italia non fa eccezione. La democra­zia ha conquistato cuori e men­ti degli europei, e non solo.
Del tutto diverse sono le valutazioni quando si passa a verificare qual è il grado di soddisfazione per il funzionamento del regime politico e per le politi­che del governo. In questa di­mensione le critiche sono mol­to più numerose, anche nelle de­mocrazie consolidate. Qui si mi­sura il grado di "scontento" poli­tico dell'opinione pubblica, quella sorta di frustrazione che affiora quando c'è uno scarto tra le aspettative e la realtà dei fatti. Pur con fluttuazioni dovu­te ai cicli economici, negli ulti­mi vent'anni si è assistito a un progressivo declino della soddisfazione dei cittadini europei. In Italia abbiamo raggiunto il fondo negli anni Novanta in coincidenza con Tangentopoli e, da allora, ci siamo un po' ripre­si: adesso non siamo molto distanti dalla media europea che si è assestata su un 55% di soddi­sfatti. Il grado di maggiore o mi­nore soddisfazione è connesso con le preferenze politiche. I cit­tadini che si identificano con i partiti di opposizione tendono ad essere ben più critici di quel­li che sostengono i partiti di go­verno. Solo negli ultimi anni so­no aumentati gli scontenti an­che nei propri rispettivi campi, sia durante l'ultima fase del go­verno Berlusconi, che, ancora più, nei primi passi del governo Prodi. Un atteggiamento che può essere interpretato come un segno positivo, di laicizza­zione della politica e di libertà di giudizio, o, invece, come un segno negativo di ulteriore di­stacco, prodotto dall’incapacità di soddisfare le aspettative persino dei propri elettori.
Vi è infine una terza dimen­sione, quella del rapporto citta­dini-politica (e partiti), richia­mata in questi giorni da vari commenti. Questa rileva la "di­saffezione politica", il senti­mento di sfiducia e lontananza della politica. Espressioni tipiche di questo atteggiamento suonano così: i partiti sono tutti uguali, gli uomini politici pen­sano solo ai proprio interessi, non si capisce mai nulla di quel­lo che dicono, la politica fa schi­fo, e così via. Il numero di colo­ro che si riconoscono in queste espressioni, nonostante il mag­gior livello generalizzato di istruzione e di "competenza po­litica", è in aumento, in Gran Bretagna e in Francia come in Italia. Ma il nostro livello di disaffezione, come dimostrano le ricerche condotte in questi anni da Giacomo Sani e Paolo Segatti, continua ad essere su­periore a quello degli altri pae­si: era già alto negli anni Settan­ta, è ancora più alto oggi. Abbia-mo una febbre più alta rispetto agli altri paesi, e ce l'abbiamo da molto più tempo. Questa febbre può aver minato la no­stra salute democratica.
È presto per stendere un ne­crologio, ma la percezione che i politici siano una casta di privilegiati grazie alle risorse che i partiti drenano dall'erario pub­blico si sta diffondendo sempre più. Erodendo la legittimità dei partiti. E suscitando sentimenti di "rabbia" più che di "apatia" in una quantità mai segnalata pri­ma. L'early warning ai partiti ita­liani è stato inviato da un bel pezzo. Vediamo le reazioni.

Tullia Zevi: «Il Pd garantisca i laici»

L'Unità
24 maggio 2007
Umberto De Giovannangeli
Piacevolmente sorpresa. Fortemente motivata dall’essere chiamata a far parte delle 45 personalità del Comitato promotore del Partito Democratico. Tullia Zevi, ex presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, intellettuale di punta dell’ebrai-smo italiano ed europeo, confida a l’Unità lo spirito e le idee con le quali affronta questa nuova «avventura».Signora Zevi, cosa rappresenta per lei questa «avventura» del Partito Democratico? «È una avventura a cui guardo con un certo ottimismo e con un po’ di speranza. E con una disponibilità a collaborare, perché mi pare che sia molto importante ciò a cui si intende dar vita».Si è detto che il Pd potrebbe essere un elemento di novità in una politica italiana da tempo «ingessata».«Questo partito è tutto da inventare, e ciò dà il senso della difficoltà ma anche del fascino di questa “avventura”. Bisogna veramente dargli uno scheletro e una articolazione, stimolandone gli apporti per arricchirne i contenuti».Partendo dalla esperienza che l’ha caratterizzata come intellettuale ed esponente storica dell’ebraismo italiano, quale contributo potrebbe venire da questo suo originale percorso? «Io penso che il fatto di appartenere ad una minoranza, di avere sempre cercato di esporre e di tutelare i diritti delle minoranze, possa determinare una certa attenzione nel partito nuovo che si vuol costruire, a problemi che vanno certamente sostenuti, sollevati, discussi e ampliati: mi riferisco al tema del pluralismo, sviluppandolo in modo articolato e dinamico».Uno dei tratti caratterizzanti della sua esperienza è stato quello di lavorare per il dialogo multiculturale. In nome di una laicità...». «È un punto importante, qualificante nel patrimonio identitario del Partito Democratico. Per essere davvero dialogante la piattaforma deve per forza essere laica, laicamente asettica in modo da dare libero gioco a tutte le tendenze, a tutti gli orientamenti e posizioni. Bisogna che vi sia una struttura dialogica fertile, aperta».Nel Comitato promotore vi è una presenza significativa della componente femminile. Ma al di là della presenza numerica, quanto dovrebbe pesare il punto di vista femminile nel nascente Pd? «Invece di dire solo l’elemento femminile, parlerei del punto di vista femminile come parte fondamentale di quel pluralismo che il partito nuovo dovrebbe esaltare».Dal punto di vista dell’apertura verso la società civile...». «È un altro aspetto di fondamentale importanza. Occorre aprirsi a tutte le voci in cui si articola la società civile, maggioranze e minoranze, un gioco delicatissimo in un Paese democratico, il rispetto reciproco, il reciproco riconoscimento, l’interesse comune...Questa è la dinamica della democrazia che andrebbe difesa e rafforzata».Lei ha vissuto molti anni negli Stati Uniti. Quando si parla di Partito Democratico, è inevitabile guardare oltre oceano, all’esperienza americana».«Il Partito Democratico è un “macigno” nella civitas americana; in Italia, il Partito Democratico va “inventato” e non mutuato da altre esperienze. La democrazia americana sulla simbiosi, sintesi e antitesi tra Democratici e Repubblicani. Non so se è questo che ci auguriamo in Italia».Signora Zevi, cosa potrebbe rappresentare, in termini di valori ma anche di politiche, il nascente Partito Democratico per l’ebraismo italiano? «Lo strumento per valorizzare il contributo, l’importanza in un Paese che nella sua stragrande maggioranza è cattolico, delle minoranze, per arricchire una società, aperta, multiculturale. Il partito a cui guardo, per il quale intendo impegnarmi, deve “servire” a sviluppare il dialogo in un ambito ampio e multiculturale. Un partito che non si fermi alla difesa della cultura della tolleranza, ma contribuisca a far vivere nella società una cultura della valorizzazione delle diversità».

Privilegi insopportabili

da Panorama del 25 maggio 2007
di Adriano Sofri

Torniamo ai cosiddetti costi della politica e al­l'esempio più succulento: le auto blu. Se è vero che le auto di servizio (non importa che colore abbiano) sono oltre mezzo milione, ne deriva una se­quenza emozionante di pen­sieri. Intanto, che dev'es­serci parecchio più di mezzo milione di autisti, dunque l'equivalente sinda­cale di una importante catego­ria operaia.
Poi che il costo complessivo ammonta a mezza Finanziaria, molto più di un tesoretto. Poi: visto che le auto blu, si dice, so­no 65 mila in Francia e 54 mi­la in Germania, per adeguarci dovremmo abolirne quasi i no­ve decimi. Ne guadagnerebbe anche il traffico, e l'inquina­mento, perché oltre a tutto so­no di grossa cilindrata. Ma im­maginiamo di ridurle solo del­la metà: portarle a 250 mila, più o meno: resterebbero il quintu­plo che in Germania, e la Ger­mania è assai popolata.
Ora immaginiamo di chiede­re a un campione vasto di poli­tici, parlamentari, amministra­tori e dirigenti pubblici: «Credete possibile dimezzare il parco delle auto blu?». Poi chiediamo loro: «Ritenete più difficile dimezzare le auto blu o contrastare efficacemente il cambiamento climatico?». Infine immaginiamo anche che rispon­dano sinceramente (occorre uno sforzo, lo so). Bene: scommetto qualunque cifra che la grandissima mag­gioranza dichiarerà più probabile riuscire ad argina­re il mutamento climatico planetario che non a di­mezzare le auto blu. Questa constatazione sarà una buona premessa alla riflessione su fini e limiti della politica. Comprereste una macchina (blu) usata da un'azienda pubblica che ne possiede 500 mila?
Però bisogna accettare anche un'altra riflessione, un po' più complicata. Non è solo l'attaccamento oltranzista ai pri­vilegi di corpo e persona­li a rendere così impervia la via di una ripulitura del­la vita pubblica. È anche il no­stro modo di essere, lo stesso che ci rende difficile, di fronte alla siccità mondiale, stare davvero attenti a non lasciar correre il rubinetto di casa nostra.
E poi le imprese grandiose so­no più alla nostra portata che la rinuncia alle abitudini medio-piccole, e le decisioni assolute (con il corredo di fanatismo che comportano) più delle misura­te. Digiunare solennemente può essere più facile che mettersi a dieta e chi conosce il digiuno sa che è in agguato al primo angolo l'abbuffata.
Così ci convinceremo sempre di più della necessi­tà di abolire del tutto le auto blu. Quanto a dimez­zarle, non se ne parla nemmeno. Più facile applicare il protocollo di Kyoto.

_

venerdì 25 maggio 2007

Auguri a Paola Caporossi APD Toscana

Da Il Tirreno
GIOVEDÌ, 24 MAGGIO 2007
Alberto Ferrarese

Fatto il comitato: sono in 45
Pd, dalla Toscana anche un’outsider
ROMA. Il Partito Democratico ha il suo primo stato maggiore. Ieri si è riunito il «Comitato 14 ottobre» (il nome l’ha lanciato Paolo Gentiloni, con riferimento alla data in cui sarà eletta l’assemblea costituente del Pd, e Prodi l’ha subito approvato), per ora composto di 45 membri, ma potrebbe arrivare a 47-48. Ci sono le prime file di Ds e Margherita, ma anche l’ex Udc Follini e il socialista Del Turco, il giornalista Gad Lerner e il presidente di “Slow Food” Carlo Petrini. Nell’organismo anche 9 toscani tra cui politici come Bindi, Dini e Letta, insegnanti universitari e una outsider, la grossetana Paola Caporossi, 43 anni.

Caporossi-Massari-De Cecco, tris di nuovi
Anche Vittoria Franco e Leonardo Domenici insieme ai “veterani”
Nessuna sorpresa per la presenza di Amato, Bindi, Letta e Dini «La nostra regione è ben rappresentata»

FIRENZE. La Toscana è destinata a “pesare” nel comitato promotore nazionale della Costituente del Partito democratico: sono 9 su un totale di 45 i membri espressi dalla regione. Dopo una lunga selezione, ieri sono stati resi noti i nomi, e tra i toscani ci sono ministri e politici, ma anche esponenti di primo piano della società civile e del movimento partito dal basso per il sostegno all’’Ulivo e al nascente Pd. Per quanto riguarda i ministri, faranno parte dell’organismo il titolare degli Interni Giuliano Amato e la ministra per la Famiglia Rosy Bindi; sarà del gruppo anche l’ex presidente del Consiglio Lamberto Dini. Ci sarà anche il pisano Enrico Letta, sottosegretario a Palazzo Chigi. Pisana di adozione è anche Vittoria Franco, senatrice dell’Ulivo, docente di filosofia alla Normale e coordinatrice delle donne Ds. Proprio sulla componente femminile del comitato, la Franco avanza delle critiche. «Se devo dire la verità - spiega - non sono pienamente soddisfatta della presenza femminile nel comitato. Quello di oggi è comunque un risultato, perché il punto di partenza era un numero molto più basso di donne. Ora però dobbiamo vigilare perché nell’assemblea costituente e nella commissione che scriverà lo statuto del partito le donne siano presenti al 50%». Del gruppo fa parte anche il sindaco di Firenze e presidente dell’Anci Leonardo Domenici. Dai Ds toscani si sottolinea proprio la «soddisfazione per l’ingresso di Domenici, che è personalità in grado di ben rappresentare tutta la Toscana». Anche la coordinatrice regionale della Margherita Caterina Bini si dice «sicuramente soddisfatta perché la Toscana, che è terra dell’Ulivo, è ben rappresentata». Però, aggiunge, «più che alla rappresentanza territoriale occorre guardare al progetto nazionale che deve essere di grande respiro». A dare un notevole contributo al comitato promotore, però, è anche la società civile toscana. Del gruppo fanno parte infatti l’economista Marcello De Cecco, professore ordinario di storia della finanza e della moneta alla Scuola Normale di Pisa, la senese Lella Massari, fondatrice e animatrice della Rete dei cittadini per l’Ulivo, e l’outsider Paola Caporossi. Grossetana di 43 anni, referente regionale dell’Associazione per il Partito democratico, Paola Caporossi è stata indicata dal premier Romano Prodi tra gli “esterni” ai partiti e si dice «molto contenta e un po’ stupita» per la nomina. «Mi era stata chiesta la disponibilità a partecipare e avevo inviato un curriculum - spiega - ma solo oggi (ieri, ndr) è stata sciolta la riserva. All’interno del comitato cercherò di portare le istanze della cosiddetta società civile, per lavorare alla nascita del Pd in forma concreta».

giovedì 24 maggio 2007

Informazioni

E' in linea il nuovo sito del Governo (www.governo.it) e il sito dell’Attuazione del Programma (www.attuazione.it) dove tra l’altro si possono trovare anche i documenti su “Un anno di Governo”.
Anche il sito personale di Romano Prodi è stato rinnovato e sono state aperte nuove sezioni (www.romanoprodi.it).

REFERENDUM

Mario Segni domani
a Livorno in piazza Cavour

Non si ferma l’azione del comitato provinciale di Livorno per il referendum elettorale. Per domani pomeriggio, Venerdi 25 Maggio, alle 18, in piazza Cavour, è previsto l’intervento del professor Mario Segni che incontrerà la cittadinanza per illustrare le motivazioni dell’iniziativa referendaria.
Contestualmente la raccolta delle firme in favore del referendum elettorale.
Per avere notizie in tempo reale sul referendum e sulle varie iniziative a sostegno, è sufficiente collegarsi con il sito
www. referendumelettorale. org

La Repubblica: Quanto ci costano i parlamentari

23 maggio 2007
MassimoRiva
Il tema dei costi della politica è (finalmente) entrato nell´agenda di governo e parlamento. A Palazzo Chigi si è insediato un apposito comitato interministeriale, mentre a Montecitorio sta per avviarsi un´indagine conoscitiva voluta dal presidente Bertinotti. Nel frattempo è tutto un fiorire di proposte da parte di gruppi o singoli parlamentari per ridurre un carico di spesa sempre più insostenibile per il bilancio dello Stato e sempre meno giustificabile agli occhi della pubblica opinione. Al punto che un politico avvertito, come Massimo D´Alema, si è spinto a paventare una crisi di fiducia distruttiva per le istituzioni. Insomma, il clima generale sembrerebbe il più adatto a favorire una svolta: ma sarà questa la volta buona? Purtroppo, ai non pochi segnali di speranza se ne contrappone principalmente uno che induce a coltivare seri dubbi sull´esito della partita. Certo, è un gran bene che il governo abbia tolto di mezzo una quantità di inutili commissioni ministeriali e altrettanto può dirsi per quanto riguarda la riduzione del 30 per cento delle indennità dei membri del governo. E´ pure buona cosa che si stia discutendo sull´abolizione di molte auto blu, sui vitalizi dei parlamentari e sull´età del loro pensionamento. Ma l´impressione è che queste ed altre iniziative consimili stiano affrontando la questione dalla parte della coda, anziché da quella della testa. Un conto, infatti, è ridimensionare la domanda di servizi del ceto politico, ben altro è tagliare la radice di alimentazione di questa stessa domanda. Radice che consiste nell´elevato numero di componenti del suddetto ceto politico: a cominciare dai 630 deputati e dai 315 senatori che siedono a Montecitorio e a Palazzo Madama per finire con gli oltre 150mila amministratori comunali. Numeri che risultano inspiegabili alla luce di qualunque raffronto internazionale, pure con paesi di più antica e solida democrazia parlamentare. Il ministro Chiti propone al riguardo l´abolizione del Senato. Idea interessante ma che, come tutte le ipotesi radicali, ha un duplice difetto: 1) di avere scarsi margini di praticabilità; 2) di eclissare la ricerca di soluzioni non meno redditizie ma anche più speditamente fattibili. Vogliamo, per esempio, immaginare che cosa accadrebbe se la Camera fosse ridimensionata a 400 deputati e il Senato a 200 componenti? Intanto, già si avrebbe quella maggior funzionalità dei lavori di cui ora tanto si discute. Quanto ai costi, nella colonna del dare ci sarebbe un aumento temporaneo dei beneficiari del vitalizio. Ma, dalla parte dell´avere, l´elenco dei risparmi permanenti sarebbe lunghissimo. Intanto, si pagherebbero 345 indennità parlamentari in meno insieme a un consistente taglio nelle spese per assistenti e portaborse. Poi, a cascata, si aprirebbe il lucrosissimo capitolo delle uscite per l´attività delle due Camere: non solo si avrebbe un immediato stop alle assunzioni, ma in breve tempo il numero di dirigenti, funzionari e generici dipendenti di Montecitorio e Palazzo Madama potrebbe essere severamente ridotto. Identica sorte avrebbero poi il parco delle auto blu e – posta ben più rilevante – l´elefantiasi immobiliare dei due palazzi che ha creato oneri non trascurabili per il bilancio pubblico. Altro che il tesoretto attorno al quale oggi si sta furiosamente disputando, un simile taglio al numero dei parlamentari metterebbe a disposizione dell´Erario – nel volgere di pochi anni – un autentico tesorone. Anche perché un Parlamento che trovasse il coraggio di autoemendarsi avrebbe una legittimazione incontestabile a stabilire analoghe riduzioni numeriche nelle pletoriche composizioni di consigli regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali: con seguito di ulteriori risparmi in termini di consulenti, dipendenti degli enti, immobili, auto blu e via dettagliando. Insomma, invece di perder tempo a prosciugare i mille rivoli a valle che alimentano gli eccessivi costi della politica, con un solo intervento a monte si otterrebbe una drastica riduzione del fiume della spesa. Perché, allora, non si sceglie questa strada limpida e lineare? La principale obiezione è di ordine formale: il numero dei parlamentari è stabilito in Costituzione, quindi per modificarlo occorre avviare la più complessa procedura di revisione costituzionale. Vale a dire una doppia votazione sia di Camera sia di Senato con un intervallo non inferiore a tre mesi fra la prima e la seconda. L´obiezione è risibile: in fondo si tratta di cambiare solo due parole del testo costituzionale. Una classe politica davvero determinata a sciogliere questo nodo potrebbe tranquillamente risolvere la questione con una pronuncia delle due Camere già prima della pausa estiva e una seconda e definitiva in autunno, che cadrebbe significativamente nel bel mezzo della sessione di bilancio. Evidentemente l´obiezione procedurale è un paravento che nasconde altre, meno confessabili, ragioni di opposizione. Una su tutte: la contrarietà a ridimensionare i confini del ceto politico. Con il rischio oggi che queste resistenze occulte trovino una formidabile arma a loro vantaggio nella riforma della legge elettorale. E´ chiaro, infatti, che una riduzione della Camera a 400 deputati alzerebbe non di poco l´asticella del quoziente elettorale utile per entrare a Montecitorio. Un conto, quindi, è fare una nuova legge elettorale per un Parlamento di 630 più 315 membri, ben altra cosa è concordare una riforma del meccanismo elettivo per 400 deputati e 200 senatori. Ed ecco il serio pericolo che incombe sui più sinceri propositi di contenimento dei costi della politica. Se si arriva prima a votare una legge elettorale centrata sul numero attuale di parlamentari, si può dare per scontato che di tagli agli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama non si parlerà più per chissà quanti anni. Oggi, perciò, è il momento necessario per porre con urgenza la questione di un´inversione dell´agenda politica: prima il voto per la riduzione dei parlamentari, poi la riforma elettorale. Questo è l´arrosto del tema "costi della politica", senza il quale tutti i comitati e le indagini in corso, nonché l´ipotesi estrema del monocameralismo, rischiano di apparire puro fumo negli occhi di un´opinione pubblica già stanca di belle ma vane parole.

La Repubblica: La sinistra e la crisi della politica

23 maggio 2007
Ezio Mauro
Ci sono due strade per cercare di uscire dalla crisi della politica che è sotto gli occhi di tutti. La prima, è quella di denunciare i ritardi e gli abusi della classe dirigente - tutta - lavorando per una riforma del sistema che è necessaria e urgente, ma che forse è ancora in tempo per salvare le istituzioni dal collasso e per evitare che l'antipolitica diventi il sentimento prevalente del Paese. La seconda, è quella di puntare direttamente sul collasso del sistema, vellicando l'antipolitica per arrivare se non a una seconda ribellione popolare in quindici anni almeno a una delegittimazione dei poteri costituiti: in modo da aprire la strada agli "ereditieri", quel pezzo di classe dirigente che non sa fare establishment ma sa proteggere molto bene la sua dubbia imprenditorialità e la sua scarsa responsabilità, sperando addirittura di ereditare il Paese. Come se in una democrazia, anche malata, la cosa pubblica fosse scalabile al pari di un'azienda in crisi, trasferendo in politica il network italiano delle scatole cinesi che consente di comandare senza essersi guadagnati il comando, senza aver costruito o almeno riammodernato qualcosa - come un partito, un movimento, un sistema culturale - che parla ai cittadini e raccoglie il loro consenso semplicemente perché "poggia su una intuizione del mondo".
Bisogna dire che i partiti e i loro leader fanno di tutto per deludere chi crede nella prima strada, e aiutano chi punta sulla seconda. Solo la cecità e la sordità italiana consentono di dire che l'allarme nasce oggi, all'improvviso. In realtà, prima di Natale il Presidente della Repubblica Napolitano (destinato ad avere un ruolo come quello di Pertini, denunciando la crisi del mondo da cui proviene) aveva parlato chiaro e forte, lanciando un vero e proprio allarme per la "tenuta" della democrazia, lamentando il "distacco" tra politica, istituzioni e cittadini, ammonendo tutte le parti politiche, perché nessuna si illudesse di "trarne vantaggio". Cosa ci voleva di più? Siamo da almeno cinque mesi davanti al rischio conclamato di una regressione democratica, con lo Stato che ritorna Palazzo, separato, trent'anni dopo.
È chiaro che la sinistra, guidando il governo e il Paese, ha le responsabilità maggiori di questo disincanto democratico, ed è naturale che ne subisca le conseguenze maggiori, in termini di consenso. Ma è altrettanto chiaro - e ripeto quel che ho scritto altre volte - che c'è qualcosa di più generale, di sistemico, che sta intaccando le istituzioni e corrode lo stesso discorso pubblico senza distinzioni, perché salta ogni intermediazione riconosciuta e accettata, sia di tipo organizzativo che di tipo culturale, dunque è la doppia anima della politica che viene colpita. Tutta la politica. Quando il sistema dei partiti fa lievitare in modo indecente i costi della politica e si trasforma in "classe" privilegiata, autoprotetta e onnipotente, controllando gli accessi, premiando l'appartenenza, puntando sulla cooptazione dei fedeli e dei simili, lottizzando ogni spazio pubblico con l'umiliazione del merito, corrodendo così la stessa efficienza della macchina statale, allora diventa impossibile fare distinzioni tra destra e sinistra. Quando a tutto questo si aggiunge da un lato l'esercizio disinvolto e automatico del denaro pubblico per mantenere e far crescere questo sistema autoreferenziale e dall'altro lato l'esibizione pubblica dei privilegi, diventa difficile non parlare di "ceto separato", un tutt'uno dove le differenze culturali e politiche che - per fortuna - dividono e connotano i due schieramenti di destra e sinistra finiscono per essere travolti dal sentimento indistinto di rifiuto e di lontananza che cresce tra i cittadini. Naturalmente l'anima originaria di Berlusconi, il suo istinto mimetico del senso comune dominante e il carattere della destra italiana possono portarlo a fingere di interpretare il risentimento democratico come una sua possibile politica, perché in realtà l'antipolitica è una forma primaria di espressione del populismo, che se ne giova mentre la nutre. La sinistra, semplicemente, non può. Questo sentimento di progressiva perdita della cittadinanza - perché di questo si tratta - la colpisce al cuore, distrugge il canale di dialogo e di incontro con la sua gente perché fa venir meno una piattaforma identitaria comune, ogni appartenenza sicura, qualsiasi cultura di riferimento: come se con l'agibilità dello spazio politico pubblico venisse a mancare un territorio in cui muoversi da cittadini consapevoli dell'ambito di libertà nostro e altrui, del portato di storia e di tradizione che ci definisce, dei nostri diritti e dei nostri doveri. In questo senso, è drammatico il vuoto di ogni proposta di cambiamento nel costume e nel metodo politico (la rinuncia alla lottizzazione, la riduzione drastica del numero dei ministri, il rifiuto dei privilegi, la riorganizzazione del tempo di lavoro del parlamento) da parte del centrosinistra tornato al governo, dopo il quinquennio berlusconiano. La sinistra radicale, mentre vuole cambiare il mondo vuole intanto cambiare anche il cda delle Ferrovie, per avere un posto. La sinistra riformista, non vede la riforma più urgente: e che credito riformatore può avere - si è chiesto qui Adriano Sofri - una politica che non mostri di saper riformare se stessa? Un ritardo reso tragico dal paragone con i tempi del nuovo presidente francese Sarkozy, che in due giorni ha fatto il governo, lo ha ridotto ai minimi termini, lo ha rinnovato per metà con ministri-donna. Un ritardo reso amaro dall'abbandono di Blair, che lascia il governo inglese all'età in cui da noi normalmente vi ci si affaccia e lo fa nella convinzione di poter avere una "second life" altrettanto piena e soddisfacente, cancellando lo stereotipo della politica non come professione, ma addirittura come vitalizio. Sia in Francia che in Gran Bretagna, nei discorsi di addio e di investitura la retorica dei leader usa la coppia concettuale formata da "io" e "voi", due parole che trasmettono molto semplicemente l'idea del vincolo di mandato e anche l'idea del vecchio partito come animale politico vivo e vitale, soggetto politico obbligatorio di riferimento, anche per leader carismatici e decisionisti. Da noi, i partiti sono nati tutti mercoledì scorso, non hanno storia, tradizione, valori consolidati, una cultura di riferimento: tutte quelle cose che fanno muovere e garrire le bandiere, che infatti non ci sono, o restano ammosciate. Anche qui, ancora una volta, la nuova destra berlusconiana prende a prestito i valori e i precetti nel deposito di tradizione millenaria della Chiesa, mentre riempie il vuoto culturale con un carisma vagamente paganeggiante e idolatrico che finge di restituire la politica ai cittadini trasformati in folla mostrando il corpo mistico del leader: mentre in realtà sottrae loro ogni partecipazione reale e per sempre, ipotizzando addirittura una successione in forma dinastica, capricciosa e incontrollabile, comunque autocratica. Ma la sinistra, quanto può resistere sul mercato politico senza una rifondazione di pensiero, senza idee-forti che diano sostanza alla sua politica, la pre-determinino, e parlino della vita e della morte, dei grandi temi, al cittadino? La parte radicale ha ancora il comunismo nelle sue bandiere, e finché dura quel simbolo sconfitto dalla tragedia che ha suscitato, ogni altra idea non è accostabile. I Ds sembrano credere che diventare riformisti significhi annacquare ogni mattina la propria identità nel mare turbolento del senso comune altrui. Come se gli strumenti propri di una sinistra riformatrice, serena e radicale insieme, non fossero oggi probabilmente i più adatti a governare le contraddizioni della fase: basterebbe saperlo, e usarli, a partire dalla laicità. Davanti a questi ritardi conclamati, al camaleontismo della destra, alle cifre del disincanto svelate da Ilvo Diamanti, la sinistra ha tuttavia una carta, che è il Partito democratico. Può banalizzarla, come sta facendo, giocandola tutta dentro il mondo chiuso degli apparati, facendo di questo partito l'ultima della creature politiche del Novecento, e allora si misurerà soprattutto il ritardo, l'affanno, il costo tardivo dell'operazione. Oppure, può farne il primo soggetto diverso del nuovo secolo, per una nuova politica, contagiando la "cosa" che dovrà nascere nella sinistra radicale, e forse persino il futuro partito conservatore, a destra. Un partito, ha scritto Mario Pirani, forte perché leggero, potente in quanto disarmato: e soprattutto, scalabile, infiltrabile, contendibile. Da qui non si scappa: perché la riforma della politica parte da qui, se si vuol fare sul serio. Altrimenti, si inseguirà il fastidio popolare crescente, da gregari spaventati, sperando che non si condensi in quell'antipolitica in cui si entra tutti insieme, ma si esce soltanto a destra. Sperando in più di evitare un nuovo collasso e una nuova supplenza, anche perché non sempre il supplente si chiama Ciampi. "Benissimo il Governatore - diceva allora l'avvocato Agnelli - ma ricordiamoci che dopo di lui c'è solo un generale o un cardinale". I generali non so, ma i cardinali sarebbero anche pronti. Proviamo a dire che non è il caso, perché non ce ne sarà bisogno.

La Repubblica: Il sovrano distante nella città proibita

22 maggio 2007
Filippo Ceccarelli
Il Palazzo è il centro del potere separato. E per tanti versi è pure un bene che lo sia.Ma quando questo potere si fortifica sotto gli occhi dei cittadini inermi; quando si corazza, si munisce, si blinda sfidando la razionalità e il buonsenso; quando le istituzioni smarriscono la loro natura per vi­vere un tempo proprio e uno spa­zio esclusivo (dal latino "ex-claudo", chiudo fuori, possibilmente a chiave), ecco allora che com'è oggi co­minciano i guai. E ancora una volta l'architettura ne rivelava l'im­minente so­praggiungere. Da tre quat­tro anni la città politica è stata invasa da ga­ritte di svariata foggia, fioriere frangi-traffico in cemento ar­mato, strade ristrette di col­po, fermate degli autobus abrogate, e sbarre auto­matiche, pas­saggi a livello, parcheggi speciali, tele­camere, fari. L'ultimo ritro­vato sono cer­te colonnine retrattili, con tanto di lucette rosse e verdi, che do­vrebbero scoraggiare le auto ka­mikaze dall'esplodere in quei pressi. Nessuno sa quanto costa­no tali pistoni "a scomparsa", es­sendo il Moloch della Sicurezza acerrimo nemico della trasparenza. I pilastri intorno a Palazzo Madama recano una sontuosa placca in ottone con fregio. Gli abitanti del centro storico prote­stano, invano.
Perché la separatezza non è un concetto astratto, né un disposi­tivo puramente logistico e visua­le. Ai vetri oscuri delle auto blin­date e alle scorte strombazzanti ai semafori (lo consente una nuova normativa) fanno riscontro i privilegi di organismi parlamen­tari divenuti tanto sfarzosi, or­mai, quanto deboli e incerti sul piano politico: ferie interminabi­li, comunque, pensioni fantastiche, condizioni bancarie uniche in Italia. I presidenti delle assem­blee hanno commessi, detti "culisti", che gli tengono in caldo le poltrone della prima fila nelle ce­rimonie pubbliche; alcuni presi­denti di gruppo parlamentare ri­chiedono in anticamera com­messe graziose, "con i tacchi" specificano. Di recente i deputa­ti e i senatori hanno preso a rac­cogliersi in club di tifosi; oppure in gruppi di ciclisti, alpinisti, ca­vallerizzi. Questi ultimi pretese­ro di sfilare in mezzo al traffico di Roma, con adeguata sorveglian­za.
Tutto sembra lì dentro vivere di vita propria. Ci sono ristoranti, caffetterie, infermerie, uffici po­stali, circoli sportivi, cappelle. Non di rado i rappresentanti del­la volontà collettiva partono per improbabili gite di studio o addi­rittura vanno in pellegrinaggio in Terrasanta, sulle orme di San Paolo o a Santiago di Composte­la; ma alcuni onorevoli fanno i capricci quando si tratta di varca­re i metal-detector agli aeroporti. Al Senato organizzano settimane gastronomiche regionali e corsi di sommelier; alla Camera recla­mano l'asilo nido e sta per essere inaugurata anche la sala di meditazione interconfessionale.
Nell'estate del 1975 Pier Paolo Pasolini, che era un poeta ma an­che un profeta, diede dignità let­teraria e apocalittica al Palazzo. Ma l'immagine è antichissima, forse addirittura di ascendenza classica, e c'è chi la fa risalire ai "superba civium potentiorum limina", le porte superbe dei po­tenti di cui parla Orazio. E' Fran­cesco Guicciardini, comunque, nei suoi Ricordi, ad aver fornito la descrizione più celebre e anti­veggente: «E spesso tra 'l palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso che, non vi penetrando l'occhio degli uomi­ni, tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India». Per dire un mon­do remoto e incomprensibile.
A qualche secolo di distanza, come sempre accade in Italia, tutto è cambiato per restare fede­le a se stesso. Alle sue confortevoli metafore, alle sue sbilenche il­lusioni. L'anno scorso Giuseppe De Rita, e quindi non esattamen­te l'alfiere del più assatanato qualunquismo, ha dato alle stampe un prezioso libricino dal titolo, invero asettico, Viaggio nelle istituzioni italiane. Ebbene, vi si legge, proprio in apertura: «E' impressionante vagare per mini­steri surrealmente vuoti. E' im­pressionante vedere enti pubbli­ci senza mission reale ma pieni di personale attento solo alla sua permanenza sul posto. E' im­pressionante vedere autorità pubbliche anche formalmente prestigiose infarcite di clientes, nei livelli alti come a quelli bassi. E' impressionante vedere - con­tinuava sgomento il segretario generale del Censis - una diri­genza pubblica disintegrata dal­la discrezionalità assoluta con cui i ministri la tiene a guinzaglio con contratti da Co.co.co. E' im­pressionante vedere il menefre­ghismo cinico con cui si lavora nel pubblico».
Il pubblico, ecco. Nel senso tradizionale di cosa pubblica, ma ormai anche in quello prevalente di spettatori. E' in quest'ambito forse che l'idea del Palazzo si è si è estesa, si è sparsa e si è pure ac­cartocciata. L'antica separazio­ne ha preso vie ancora troppo evolute e misteriose da delinea­re. La tecnologia, specie quella delle visioni a distanza e in tempo reale, costringe il potere a mo­strarsi incessantemente, però al tempo stesso ne rivela pure i vuo­ti, gli scarti, le magagne.
Così, la città proibita abbandona i luoghi deputati ed emigra al­trove. Berlusconi, che è un sovra­no, ha soprattutto i suoi, di palaz­zi: Arcore, via del Plebiscito (con un "parlamentino" al piano ter­ra), villa La Certosa. Gli altri po­tenti continuano a radunarsi sempre fra loro, ma spesso e vo­lentieri lo fanno in ville, castelli, conventi, resort d'atmosfera, tribune d'onore degli stadi, feste vi­gilate da nerboruti gorilla, salotti meta, para, trans e post-istituzionali di cui Bruno Vespa si fa civet­tuolo resocontista tramandando ai suoi non pochi lettori le delizie eno-gastronomiche. Oppure si concentrano in quegli amma­lianti baracconi artificiali, sotto quelle tensostrutture leggerissime e provvisorie allestite secon­do il modello dei set televisivi.
Sembrano saltati i confini del sacro recinto della politica. Il po­tere trasloca. La privatizzazione del Palazzo sembra compiuta. Ma la sostanza, che poi è anche la distanza, non cambia, anzi si ac­cresce. E prima o poi bisognerà colmarla, vivamente si spera nel modo più indolore possibile.

La Repubblica: la sindrome del Palazzo

22 maggio 2007
Stefano Rodotà
L’immagine del Pa­lazzo è antica, parla di distanza, privile­gi, addirittura di sopraffa­zione. Entra nella pubblica discussione italiana quan­do se ne impadronisce Pier Paolo Pasolini e la brandi­sce come un'arma per de­nunciare corruzione poli­tica e abusi di potere, invo­cando per il massimo re­sponsabile, all'epoca indi­cato nella De, un Processo. Nessuno, già allora, poteva dire "non so", ma quasi tutti si comportavano come se non sapessero.
Anzi, chi invocava"austerità" e parlava di "questione mora­le" veniva accusato di volere una politica triste, di cedere al moralismo, parola in Italia usata con di­sprezzo per affrancarsi anche dagli obblighi minimi della moralità. Era Enrico Berlinguer che lanciava quei moniti, e so bene che questo è un ri­cordo scomodo per chi vuole entra­re nel futuro senza memoria, co­struirsi un pantheon di comodo, af­fannarsi alla ricerca di qualsiasi le­gittimazione. Ma è un ricordo importante proprio perché oggi si di­scute del rapporto tra politica e società, tanto logorato da far temere una catastrofe. Quando Berlinguer morì, un'onda di emozione attra­versò il Paese, che non era solo un fatto di sentimenti (che pure conta­no assai), ma che si tradusse in consenso politico nelle elezioni europee di poco successive, guadagnando al Pci uno storico sorpasso sulla Dc. Ri­gore, misura, onestà erano percepi­ti e dichiarati come valori dai quali la politica non doveva separarsi.
Dopo di allora cominciò un'altra stagione. Il realismo cinico faceva scuola, i machiavelli si compravano a un tanto al chilo, ai massimi livelli di governo si proclamava che la po­litica era "sangue e merda", che la tangente doveva essere legalizzata, che alla politica si doveva applicare la logica del supermercato dove, più che arrestare i ladri, si scarica sui prezzi il costo dei furbi. Sappiamo come è andata a finire. Man mano che si smagliava la rete di protezione pazientemente costruita negli anni, e i vecchi equilibri venivano spazza­ti via dalla caduta del Muro, comin­ciavano a comparire sulla ribalta giudiziaria vicende per lungo tempo tenute al riparo dall'attenzione del­la magistratura da un sapiente gioco di dinieghi, di autorizzazioni a pro­cedere, e spostamenti di inchieste e processi. E fu Mani pulite.
Negli anni successivi la tesi del complotto, del colpo di Stato giudi­ziaria ha progressivamente preso il sopravvento. Questo è stato il vero colpo di spugna con l'oblio fatto ca­dere sull'abisso di corruzione pubblica e privata che era stato scoper­chiato. Le responsabilità erano tut­te dalla parte dei giudici e non dei politici, che hanno così potuto tor­nare a tessere robustissimi fili di corruzione e ritenersi legittimati da una privatizzazione senza prece­denti del denaro pubblico. Alla cor­ruzione più o meno nascosta si è co­sì affiancato il saccheggio delle ri­sorse dello Stato.
Ed eccoci qua a stracciarci le ve­sti, a scrivere libri sul costo della po­litica, chiedendo che si recuperino risorse tagliando qui e là, cosa sa­crosanta, ma che rischierebbe d'es­ser un esercizio inutile se non sarà accompagnato da un recupero del­la risorsa sostanziale, la moralità pubblica perduta e dileggiata che è anche questione di misura, so­brietà, rispetto degli altri.
Ho visto il pomposo Chirac in una mattina di domenica invernale, scendere da una macchina accom­pagnata da un'unica auto di scorta e, solo, senza codazzi e turbinii di guardie di corpo, entrare nel grande anfiteatro della Sorbona per celebrare i vent'anni del Comitato na­zionale di bioetica. Vedo quasi ogni giorno davanti a Sant'Andrea della Valle passare rombanti, con palette agitate e sirene spiegate, auto di pic­coli potenti, impediti da tutto quel frastuono di ascoltare le maledizio­ni loro rivolte dalle persone che si trovano sui marciapiedi.
L'apparire sfarzoso, o solo chias­soso, sostituisce il potere declinan­te. La disoccupazione è lenita dagli stipendi ai consiglieri circoscrizio­nali. Le Camere soffrono di emargi­nazione, compensata da bonus ag­giuntivi e riduzione dei carichi di la­voro.
Anni fa, proprio su questo giorna­le, suggerivo una piccola riflessione. Che cosa accadrebbe se un impren­ditore, proprietario di due aziende, scoprisse che una di esse produce lo stesso numero di pezzi con metà dei dipendenti dell'altra? E' proprio quel che accade in Parlamento, do­ve il Senato fa esattamente lo stesso lavoro della Camera con metà degli "addetti". Calcolavo poi che i parla­mentari attivi, quelli che mandano avanti la baracca, sono poco più di un quinto dei componenti delle Ca­mere, sicché insieme a Luigi Ferrajoli si organizzò un convegno po­lemicamente intitolato "Una Ca­mera cento rappresentanti".
Detesto le logiche aziendalistiche trasferite nella politica e so bene che il Parlamento ha una funzione rappresentativa che va bene al di là della produttività legislativa. Quan­do però la funzione rappresentativa è sequestrata da oligarchie che si ri­producono la macchina legislativa si inceppa, diviene forte il bisogno, non dirò la tentazione di tagliare senza troppi riguardi.
La riduzione del numero dei par­lamentari sarebbe un segnale im­portantissimo, anche se non si può vivere di soli segnali. Ma sarebbe pure una misura insufficiente, se i re­stanti parlamentari continuassero ad essere selezionati come è avve­nuto in questi anni, a venir sommer­si da decreti legge, a essere prigio­nieri di quella macchina produttrice di corruzione istituzionale che è di­venuta la legge finanziaria, a non av­viare e sperimentare forme nuove di rapporto con la società.
Ma il dialogo con l'opinione pubblica, il recupero della fiducia non possono essere affidati solo ad una politica dell'immagine. E soprattut­to a quel modo di intendere l'immagine di cui la politica italiana sembra ormai rassegnata prigioniera. In tutti i paesi che frequento non ho mai registrato una bulimia televisiva pari a quella italiana, una overdo­se di politici (non di politica, che è al­tra cosa) nei più disparati talk show, da quelli sportivi a quelli in cui si ti­rano e si prendono torte in faccia. Forse vi sono politici che, senza que­sto continuo apparire si sentirebbe­ro morti. E invece è proprio un'immagine di morte, o almeno di rinun­cia alla dignità quella che proietta­no, essendo giustamente percepiti come una logora compagnia di giro, con le sue maschere fisse e che por­ta in tournée i suoi battibecchi, solo nelle apparenze e nelle parole lega­ti ai problemi delle persone e del mondo. Il Palazzo sembra essersi tutto dissolto nei network televisivi.
Attenzione, però. Ilvo Diamanti ha opportunamente messo in guar­dia contro frettolosi paralleli tra le cause che portarono al collasso dei primi anni '90 e la situazione attua­le. Ma il discredito che avvolge la politica sta rafforzando gli altri po­teri, da quelli economici a quelli cri­minali, soprattutto per quanto ri­guarda la loro legittimazione socia­le. E' da lì che si attingono modelli, sono quelli i Palazzi che si vogliono frequentare.
Il sedimentarsi di questo modo di sentire produce una fuga dalla politica, rendendo ancor più difficile un vero rinnovamento della classe di­rigente. Se l'entrata in quel Palazzo diventa un marchio d'infamia, un segno permanente di impurità, chi vorrà varcarne la soglia? E chi lo avrà fatto con spiriti diversi dalla pura camera e dall'arricchimento, da quel mostruoso connubio con il de­naro e la corruzione, dovrà essere additato in eterno come partecipe di una congrega che ha perduto per sempre il diritto di essere presente sulla scena pubblica? In questo mo­do non si favorirà chi nell'ombra dei poteri, ha coltivato una finta indi­pendenza?
La politica è una cosa sporca, ha sempre proclamato un perverso senso comune. Per evitare che que­sto si consolidi come l'unico modo di guardare alla politica bisogna non dare segnali ma avviare azioni concrete. Ristabilire la legalità, pri­ma di tutto: può uno specifico Pa­lazzo, quello di Montecitorio, con­tinuare ad essere il rifugio di chi, condannato in via definitiva do­vrebbe da tempo averlo lasciato? Abbandonare i fasti di Palazzo: le Camere devono lavorare o organizzare mostre? Rinunciare all'imma­gine a favore della trasparenza: pre­senza televisiva o presenza di sog­getti nuovi che seguano da vicino una serie di scelte e ne certifichino la correttezza? Denunciare gli abu­si e cominciare ad accompagnarli con l'indicazione precisa di chi li ri­fiuta e li combatte: è illusorio pen­sare che la moneta buona possa cominciare a scacciare quella cattiva?
E, soprattutto, spazio parola e mezzi proprio ai moralisti, per av­viare quella ricostruzione di un'etica pubblica senza la quale è vana la ricerca di ogni consenso tra i cittadini.

La Stampa: Un timoniere per il "Titanic" della politica

23 maggio
MICHELE AINIS

La crisi che attraversa la politica non è uguale a quella del 1992: è molto peggio. Perché allora montò un vento d’indignazione collettiva contro i politici corrotti; oggi si prepara una bufera che non risparmierà nessuno, senza distinguere onesti e disonesti, capaci ed incapaci. Agli uomini politici (e alle poche donne che siedono con loro nel Palazzo) gli italiani rimproverano d’esistere, né più né meno. Nutrono un odio di classe simile a quello del Terzo Stato contro l’aristocrazia francese, alla vigilia dell’Ottantanove. Covano un sentimento generalizzato di disgusto, o al più d’indifferenza (83 italiani su 100, in base al sondaggio di Mannheimer), che per una volta unisce la destra e la sinistra, i guelfi e i ghibellini.Rispetto agli anni di Tangentopoli vanno poi annotate due ulteriori discrepanze. Perché a quel tempo il ceto politico non seppe avvistare l’iceberg piantato dinanzi alla prora del Titanic, benché Il portaborse di Nanni Moretti fosse stato proiettato nei cinematografi ben prima che esplodesse l’inchiesta di Milano; ora invece gli scricchiolii giungono distintamente all’orecchio dei politici, i quali tuttavia non sanno metterci rimedio, e anche quest’impotenza è parte del problema. E perché in secondo luogo stavolta la marea s’allarga dalla politica alla polis, dai governanti alle stesse istituzioni (meno di un italiano su tre ha ancora fiducia in governo e Parlamento). In breve, il discredito sommerge ormai lo Stato, e perciò le basi stesse della nostra convivenza.Noi non sappiamo in che modo l’onda d’urto colpirà il proprio bersaglio. Può scegliere la fuga dalle tasse, come nei giorni scorsi ha paventato De Rita. Può esprimersi nella forma del non voto, o altrimenti della scheda bianca collettiva, come ha già annunciato Giampaolo Pansa, e come accade in un romanzo visionario di José Saramago. In un caso o nell’altro l’ordine legale andrebbe in pezzi, e i pezzi verrebbero raccolti da qualche cavaliere solitario. Sappiamo però che i rimedi interni alla politica non funzionano, non hanno speranze di successo. Se c’è una scena affollata da 24 partiti, e se anche i più piccoli hanno poteri di veto sulla riforma elettorale, solo un ingenuo potrebbe illudersi su un suicidio di massa dei partiti. Se i costi dipendono dai 427.889 posti che mette in palio la politica, e se chi ha un posto decide altresì sul proprio costo, sarebbe da anime candide sperare che costoro seghino il ramo su cui stanno seduti.Servono perciò rimedi esterni, giacché uno storpio non può raddrizzarsi da se stesso. E servono soluzioni eccezionali, perché questo è un frangente eccezionale. Può giocare un ruolo il referendum prossimo venturo, anche se il referendum non è la panacea di tutti i mali. Ma gli anticorpi alla crisi dello Stato vanno individuati nello Stato. Per meglio dire, negli organi con funzioni di garanzia, piuttosto che d’indirizzo politico attivo. D’altronde la distinzione fra garanzia e indirizzo può ben essere sottile, e comunque ogni potere pubblico è un po’ come un elastico, che può stirarsi senza toccare il punto di rottura. Questo vale per la Consulta, che non farebbe male a svegliarsi dal tran tran, per esempio castigando l’abuso dei decreti legge varati in assenza dei presupposti costituzionali, o ancora e per esempio supplendo all’inerzia delle assemblee parlamentari con pronunzie di tipo additivo. Vale per la Corte dei conti, sentinella degli sprechi. Ma soprattutto vale per il Capo dello Stato.Del resto una tradizione giuridica che viaggia da Schmitt a Esposito lo configura come «reggitore dello Stato» durante le crisi di regime. Ma le crisi è meglio prevenirle che combatterle. Per riuscirci non basta più la moral suasion che Napolitano ha usato di recente, con il suo doppio monito a governo e Parlamento. Probabilmente è necessario usare in modo ferreo i poteri di veto (sui disegni di legge, sui decreti legge, sulle leggi), convertendoli in poteri d’impulso attraverso i messaggi di rinvio alle Camere. È necessario (come già indicò Paolo Barile) dare corpo sostanziale ad altre competenze fin qui solo formali, dalla presidenza del Consiglio supremo di difesa a quella del Csm. Un presidente politico come Giorgio Napolitano saprebbe ben trovare tempi e modi, senza rispolverare le picconate di Cossiga, anch’esse cadute - e non a caso - quand’era alle viste Tangentopoli. Insomma per uscire dalla crisi non ci serve un Führer, e forse nemmeno un Cincinnato; ma un commissario sì.

Save the Date:Sabato 2 Giugno 2007

Il prossimo 2 Giugno, nel pomeriggio, si terrà a Roma un’iniziativa per il Partito Democratico, organizzata dalla nostra Associazione Nazionale per il Partito Democratico insieme ad altri movimenti e singoli cittadini.Interverrà, tra gli altri, il Presidente del Consiglio Romano Prodi.Il programma dell’iniziativa sarà disponibile nei prossimi giorni sul sito web:
www.apditalia.org In questo momento è importante che ognuno possa partecipare attivamente al processo costituente del P.D. Per questo contiamo sulla tua presenza e sui tuoi suggerimenti.Per informazioni e adesioni: organizzazione@apditalia.org

martedì 22 maggio 2007

Vannino Chiti: "Una Camera, via 300 seggi e meno poltrone nei Comuni"

MARTEDÌ, 22 MAGGIO 2007
tagli a consigli e authority Dopo i manager pubblici ci vuole un tetto anche agli stipendi delle Authority e presenteremo un ddl per tagliare del 25% i consiglieri comunali e provinciali, come proposto dalla stessa Anci
rivedere le indennità Parlamentari, sindaci, consiglieri dovrebbero percepire una sola indennità, non 3 o 4. E va posto un limite, stabilendo se un deputato deve guadagnare quanto il sindaco di Milano o Roma

LAVINIA RIVARA
ROMA - Due italiani su tre, secondo la ricerca di Ilvo Diamanti, non hanno fiducia nella classe politica, Prodi e Napolitano puntano il dito contro il Parlamento, D´Alema lancia l´allarme sul rischio di una crisi simile a quella degli anni ‘90, Bertinotti dice che ci siamo già dentro e accusa un bicameralismo ormai «ridondante». Vannino Chiti, ministro ds delle Riforme e dei rapporti col Parlamento è, per il ruolo che ricopre, al centro di questo conflitto. E a lui, che si dice «d´accordo con D´Alema», chiediamo allora come se ne esce. «Serve una risposta forte, anzi più di una. Dobbiamo essere in grado - afferma - di superare definitivamente il sentimento dell´antipolitica».Da dove si comincia?«Dalla riforma delle riforme, il superamento del bicameralismo paritario. Perché qui Bertinotti ha ragione. L´Italia è l´unico paese tra le grandi democrazie occidentali in cui permane questo sistema. In Francia, Germania, Spagna e Regno Unito, la Camera politica è una sola. Noi dobbiamo trasformare il nostro Senato in una sorta di Bundesrat, dove siedano Regioni, sindaci di città capoluogo, presidenti di provincia. Così il sistema legislativo sarebbe molto più efficiente e taglieremmo oltre 300 parlamentari. Questo, prima ancora della riforma elettorale, è il problema principale che oggi ci troviamo di fronte, come ho sostenuto anche in Parlamento».Ministro, non si capisce però come mai, pur essendoci una larga convergenza sul superamento del bicameralismo (tanto che anche il centrodestra lo aveva inserito nella sua riforma costituzionale), la legge non riesce a decollare. Non sarà che la voglia di conservare il seggio parlamentare prevale sempre sull´interesse generale?«Guardi, la riforma si può fare in due anni. Entro la fine del 2007 la prima commissione della Camera deve presentare la sua proposta, ma è chiaro che se non c´è una intesa tra i partiti si rischia di fallire».E allora?«Allora il centrosinistra deve dire con forza che questa è la strada da percorrere, chiedendo alla Cdl un patto di fronte al Paese. È quello che io e Prodi abbiamo cercato di costruire negli incontri con i partiti. La verità è che l´opposizione teme che impegnandosi assicurerebbe al governo almeno altri due anni di vita. E non vuole fargli questo piacere. Per questo la speranza è che salga una spinta dal Paese».C´è anche un problema di produttività e di privilegi. Il presidente della Repubblica Napolitano ha chiesto alle Camere di lavorare di più. Non è assurdo che oggi un deputato stia a Montecitorio meno di tre giorni a settimana?«Va cercato un equilibrio tra il necessario rapporto con il territorio e la presenza nell´istituzione. Tempo fa era stata avanzata la proposta, mai messa in pratica, di concentrare i lavori parlamentari in tre settimane al mese, lavorando dal lunedì al venerdì, e di lasciare la quarta per i rapporti col territorio. E poi c´è il problema dei regolamenti. Credo che Bertinotti dica che la loro revisione potrà entrare in vigore solo nella prossima legislatura semplicemente perché il centrodestra si oppone ad una applicazione immediata. Ma è chiaro che ha ragione Vincenzo Visco: in un Parlamento moderno si lavora molto in commissione, non concentrando tutto in aula, come avviene in Italia».E le retribuzioni?«Occorre più trasparenza: i parlamentari, così come i sindaci, i consiglieri regionali, eccetera, dovrebbero percepire un´unica indennità, e non tre o quattro come avviene ora. E va posto un tetto, stabilendo, per esempio, se un deputato deve guadagnare quanto il sindaco di Milano o di Roma o no. Infine i privilegi: un parlamentare quando va allo stadio, al cinema, o a teatro, non lo fa in nome della sua funzione, ma come semplice cittadino. So bene che molti non le usano, ma sarebbe ora di abolire le varie tessere per gli ingressi gratuiti. Infine c´è la questione del vitalizio su cui ha presentato una proposta condivisibile il senatore Bobba: sistema contributivo, in pensione non prima dei 65 anni, tassa di solidarietà del 4% a carico di chi già riceve il vitalizio».Il governo però non può nulla in questo campo.«Naturalmente, su questi temi decidono autonomamente le Camere e gli enti locali. A Montecitorio è stata avviata una indagine conoscitiva sui costi della politica. Mi auguro che si concluda velocemente e che l´Unione proponga queste modifiche, perché credo che chi rappresenta i cittadini ha la responsabilità di un esempio di sobrietà».Il governo però può agire in altri settori. Intende farlo? E come?«Abbiamo già ridotto di un terzo l´indennità di ministri e sottosegretari e abolito qualche centinaia di commissioni. E nella finanziaria abbiamo inserito un tetto agli stipendi dei manager pubblici. Ma non basta. Presenteremo un disegno di legge che recepirà la proposta di Comuni e Province per diminuire del 25 per cento il numero dei consiglieri comunali e provinciali e far sì che le comunità montane non siano più enti autonomi (con tanto di consigli e giunte), ma solo associazioni di comuni, ed effettivamente di montagna. Inoltre ritengo che il tetto alle retribuzioni vada previsto anche per tutte le Authority. Infine vogliamo chiedere a quelle Regioni che hanno aumentato nel 2005 il numero dei consiglieri, di riportarlo per le elezioni del 2010 alla quota precedente». Per molti l´attuale legge elettorale è responsabile del distacco dei cittadini dalla politica. Lei ha presentato una bozza di riforma criticata da più parti, ultimo il governatore del Friuli, Illy.«Io sostengo che per avvicinare i cittadini alla politica bisogna innanzitutto che la legge elettorale favorisca la presenza delle donne. Poi, sul versante tecnico, ci sono due strade: la preferenza (osteggiata da molti partiti) o il collegio uninominale, che può vivere anche in un sistema proporzionale con sbarramento. Ora Fini indica una soglia del 3-4 per cento. Sarebbe già il doppio dello sbarramento in vigore oggi».

lunedì 21 maggio 2007

Parisi: ''No a gestione centralizzata della politica''

Parisi: ''No a gestione centralizzata della politica''A 'La Stampa' il monito del ministro della Difesa sul Partito democratico dopo la denuncia del vicepremier D'Alema sulla crisi di credibilità del sistema: ''Vedo già proporre la ripetizione del passato, con i vertici ossessionati dalla preoccupazione di garantire e perpetuare l'esistente''

Roma, 21 mag. (Ign) - Dopo D'Alema, Parisi. La crisi di credibilità della politica denunciata ieri dal vicepremier preoccupa il management e oggi è il ministro della Difesa a lanciare il monito alle dirigenze dei partiti in un colloquio con Ugo Magri apparso su 'La Stampa'. "I politici appaiono ai cittadini non solo molto costosi, ma anche poco produttivi e quasi per nulla legittimati" mette in guardia Parisi constatando che "monta un'ondata limacciosa di risentimento collettivo, moralismo e populismo insieme".La sua riflessione si incentra sul Partito democratico, che anziché presentarsi come la novità in grado di porre rimedio alla disaffezione dei cittadini nei confronti della politica, rischia invece di rivelarsi una semplice prosecuzione dello status quo. ''Vedo già proporre come nuovo inizio la ripetizione del passato - dice Parisi -. Una brutta tendenza a consegnare il nuovo soggetto politico alla gestione centralizzata dei vertici nazionali, ossessionati dalla preoccupazione di garantire e perpetuare l'esistente''.Quindi, avverte, ''il confronto sul Partito democratico deve partire dal riconoscimento della denuncia'' fatta da D'Alema ''e dal confronto sulle cause che hanno determinato la situazione attuale. Partecipare significa scegliere. Ma la scelta è possibile solo se il confronto è tra posizioni compiutamente politiche. Non credo che la crisi di sistema segnalata da D'Alema possa essere affrontata dividendoci su come e quando tagliare l'Ici...''

D'Alema: «Politica, crisi come negli anni 90»

Maria Teresa Meli, Corriere della Sera, 20-05-2007
Ministro D'Alema, un bilancio di questo primo anno di governo. «Il bilancio concreto dell'azione di governo è estremamente positivo».All'esterno la percezione è un po' diversa... «Questo è il frutto di una situazione paradossale. Noi abbiamo un alto tasso di crescita, il più alto da molti anni a questa parte e anche il più vicino alla media europea, abbiamo un tasso di disoccupazione che è il più basso da 15 anni, e l'inflazione è ferma all'1,5%. E tutto ciò non è successo per caso ma grazie al governo. Risultati straordinari: se li avesse ottenuti Berlusconi, si sarebbe fatto incoronare imperatore d'Italia. L'economia dunque è in ripresa e anche il profilo internazionale dell'Italia si è molto rafforzato. È un dato oggettivo, quest'ultimo: ci viene universalmente riconosciuto. D'altra parte in politica estera abbiamo abbiamo ottenuto una catena di successi difficile da mettere insieme».Il governo però appare debole e Mastella minaccia la crisi. «La debolezza del governo è una debolezza di messaggio al Paese. L'esecutivo ha il problema drammatico che i suoi risultati sono oscurati dalla crisi del sistema politico, dal prevalere del chiacchiericcio e delle litigiosità autoreferenziali.Tra l'altro, tutto perde di significato quando uno protesta non per quello che dice di contestare, ma perché è preoccupato per la legge elettorale».Si riferisce a Mastella, ministro? «Io sono amico di Mastella, ma tutta questa agitazione appare strumentale e immotivata. Comunque tutta questa strumentalità allontana i cittadini dalla politica e dalle istituzioni. È un problema che riguarda il governo ma anche l'opposizione. È in atto una crisi della credibilità della politica che tornerà a travolgere il Paese con sentimenti come quelli che negli anni 90 segnarono la fine della prima Repubblica. E infatti se è vero che il governo non gode di altissima fiducia è anche vero che se si chiedesse alla gente se vuole il governo Berlusconi, la risposta sarebbe "no". Alla scarsa fiducia verso di noi non corrisponde una forte fiducia verso di lui. Per questo io non credo che il governo sia a rischio, perché non c'è un'alternativa».Intanto il chiacchiericcio continua. «Già, e qualche volta si cerca di coinvolgermi, attribuendomi frasi che non ho mai detto. Se potessi dare un consiglio amichevole ai giornalisti direi: non fidatevi dei politici che alzano il telefono e vi rivelano "i retroscena". Spesso sono bugie che vengono messe in circolazione per colpire qualcuno o favorire qualcun altro» .Ministro, e la discussione sul tesoretto? «Io non ho ancora capito bene di quanti soldi si tratti e la cosa non è irrilevante, perciò mi astengo da queste discussioni, perché credo che quando si parla di risorse pubbliche lo si debba fare con serietà e precisione».Va bene, ministro, non conoscerà l'entità del tesoretto, ma visto che c'è, si sarà fatto un'idea di dove destinarlo. «Occorrerà muoversi seguendo le tre grandi scelte che abbiamo fatto: rigore — e cioè aggiustamento dei conti pubblici — giustizia sociale e competitività. Adesso che l'Europa ci impone di estendere il cuneo fiscale a ogni tipo di impresa, questo ci costerà più del previsto».Questa è la competitività. E la giustizia sociale? «Ritengo che la priorità sia quella di aumentare le pensioni più basse. Penso ai tanti anziani, spesso soli, che sopravvivono con 400 euro al mese. Inoltre sarebbe una misura che aiuterebbe a chiudere positivamente la trattativa sulle pensioni».E l'Ici? «Io penso che le priorità per maggio- giugno siano le tre che ho detto. Il tema dell'Ici lo affronteremo più in là.È un'imposta comunale ed è il maggior sostegno dei Comuni italiani.Quindi dobbiamo riorganizzare la fiscalità locale: non è che possiamo togliere i soldi ai Comuni e basta. Si tratta pertanto di un'operazione molto complessa. Ma abbiamo quattro anni di tempo davanti a noi e se il trend di crescita internazionale si mantiene, noi possiamo ragionevolmente pensare di abbassare la pressione fiscale».Lei prima accennava alla trattativa sulle pensioni. I sindacati sono sul piede di guerra per questo e altri temi. «Io ho un grande rispetto per i sindacati, però hanno perso anche loro lo slancio che ha caratterizzato l'azione del movimento sindacale, che era una forza generale che si faceva carico dei grandi temi dello sviluppo del Paese. Oggi non è così: il sindacato è molto più focalizzato sulla tutela di interessi, legittimi, ma di natura particolare. Questo vale anche per Confindustria, ovviamente, e per le altre organizzazioni economiche e sociali».Il sindacato, però, dice che vorrebbe confrontarsi con un governo unito... «Effettivamente, con un esecutivo non unito, i sindacati sono in difficoltà: è molto più faticoso trovare un'intesa. E qui si torna al grande problema del nostro Paese, che è quello di dare autorevolezza alla guida politica. Noi paghiamo lo scotto di non avere avuto la forza di fare le riforme. Io non chiedo la dittatura, però o noi troviamo il modo fare una riforma elettorale che porti con sé anche un rafforzamento dell'esecutivo e il superamento di alcuni meccanismi obsoleti, come il bicameralismo, o rimaniamo nella palude. E di questo tema dovrebbero farsi carico tutte le grandi forze del Paese».Anche l'opposizione, dunque? «Già, tutti i leader dell'opposizione dovrebbero interrogarsi sul futuro di questo Paese e delle sue istituzioni, al di là dei calcoli di convenienza. È del tutto evidente che il nostro sistema politico corre dei rischi molto seri e che bisogna affiancare alla riforma della legge elettorale un pacchetto di riforme costituzionali».Ma se la maggioranza non riesce a mettersi d'accordo neanche al suo interno sulla riforma elettorale... «Se non si fa la riforma, si va al referendum. Le cose precipiteranno verso esiti magari non voluti, ma ormai il meccanismo referendario è avviato, non è che si può far finta di nulla. Il referendum rischia di generare un sistema difficilmente governabile e a quel punto quelli che finora cincischiano saranno costretti a riformare la legge».Lei l'altro ieri ha rimpianto il patto della crostata, quello che a casa Letta sancì il patto della Bicamerale sulla riforma elettorale e istituzionale... «La crostata non c'era. Non ricordo quale fosse il dessert, ma ricordo bene i contenuti di quell'accordo: c'era elezione popolare diretta del capo dello Stato e c'era il doppio turno, che avrebbe limitato il potere di ricatto delle forze minori. Era un accordo importante per l'Italia».Ma Berlusconi e altri lo fecero fallire. E ora? «Ora io penso che in questo panorama non confortante il Partito democratico si presenti come l'unica novità e non è un caso che questo progetto susciti interesse e partecipazione. Se non lo sciupiamo nel corso delle prossime settimane, rappresenta un progetto di speranza per molti. Noi abbiamo il dovere di non tradire queste aspettative e di dar vita a una fase costituente che consenta a ciascun cittadino italiano che lo vorrà di votare ma anche di essere votato. Ottobre sarà il momento della verità: il successo del nostro progetto dipenderà molto da quante persone andranno a votare per la costituente».Come si immagina l'elezione dell'assemblea costituente? «I meccanismi partecipativi possono essere tanti. Non è detto che debba essere una conta tra leader nazionali. Questo avverrà dopo, quando arriveremo alla scelta del leader del futuro, anche perché Prodi ha annunciato che col finire della legislatura lascerà. Lui è il padre fondatore del Pd che completa con questa legislatura la sua esperienza politica. La scelta del leader futuro, però, non è cosa di ora, ma, ovviamente, non aspetteremo neanche il 2011 per decidere».Quindi anche lei si sottoporrà alla prova delle elezioni dell'assemblea costituente... «E allora? Se siamo delegati di diritto non va bene perché rappresentiamo il ceto politico che riproduce se stesso. Se ci sottoponiamo alle elezioni non va bene... perché forse ci votano. Possiamo solo farci fucilare? Guardi che io non ho una funzione nella vita pubblica perché sono imposto dall'alto: io ho il consenso di una parte del Paese sennò non conterei nulla. Quando mi sono presentato alle elezioni mi hanno votato al di là dei partiti e dei loro apparati. Alle Europee ho preso 834 mila preferenze non perché sono stato imposto dal Pcus!».Ministro, dica la verità, farà una sua lista per la Costituente? «Non sappiamo neppure se ci saranno le liste. Francamente mi pare del tutto prematuro parlare di queste ipotesi quando non si sa neanche con quale sistema si voterà».Voi evitate di fare nomi adesso per il leader del futuro. Ma c'è un nome che gira sui giornali: quello di Veltroni. «Io ritengo che questa condizione di candidato predestinato così fortemente sponsorizzato dai giornali lo danneggi moltissimo. Se fossi in lui mi preoccuperei, ma sono convinto che siccome è un uomo intelligente questo lo capisca bene. Io ritengo che Veltroni sia una risorsa: la fiducia che i cittadini hanno verso di lui è una cosa importante, però nello stesso tempo bisogna avere anche la fiducia della classe dirigente perché governare non è un'impresa solitaria. A Walter mi sono sempre permesso di consigliare calma e prudenza, di non mettersi nelle mani frettolose di qualche king maker...».

sabato 19 maggio 2007

Finocchiaro: giovani e donne nel Pd o sarà un fallimento

11 Maggio Intervista di Marco Damilano - L'Espresso
Il governo. Le riforme. La sinistra. Il centro. Berlusconi. Il Family day. Il futuro del nascente partito. E la sua leadership. Parla il capogruppo dell'Ulivo al Senato.
L'avevamo lasciata al trionfo del congresso di Firenze dei Ds, con la platea in piedi ad applaudire, la ritroviamo tre settimane dopo nella sua stanza di capogruppo dell'Ulivo al Senato. Anna Finocchiaro cita il libro di Clarissa Pinkola Estès 'Donne che corrono coi lupi': "A volte mi sento così". Scherza su Ségolène: "Ha fatto una bellissima campagna elettorale. Ma io sono io". Nella prima intervista dopo i congressi non dice di essere disponibile a correre per la leadership del Pd, come hanno fatto altri colleghi (maschi). Ma poco ci manca.
Dopo il congresso Ds, torniamo alla normalità agitata del centrosinistra. Tra qualche giorno il suo gruppo avrà 12 senatori in meno con la nascita del movimento Mussi-Angius. Sant'Anna è chiamata a fare altri miracoli...
"Sono tornata nel mio luogo, lo sarà - spero - fino alla fine della legislatura. La scissione era annunciata, avremo nuovi problemi organizzativi e nuovi problemi politici. Ci vorrà più attenzione e un più forte investimento politico da parte del governo. Ma io sono abituata: da un anno non faccio altro che affrontare difficoltà. Ho detto prima che il gruppo dell'Ulivo non era l'embrione Partito democratico. Ora però, dopo i congressi e questa separazione, il gruppo dell'Ulivo diventa uno dei luoghi di elaborazione in vista del Pd. Ci sarà più interesse politico, una curiosità maggiore".
In un anno da capogruppo qual è stato il momento più drammatico e quello più felice?
"Il pomeriggio della crisi di governo è stato il momento peggiore. Il più bello è stato quando abbiamo approvato il decreto fiscale senza ricorrere al voto di fiducia. Quando lo abbiamo chiesto al governo sul momento non hanno fatto i salti di gioia. Ma non serviva solo a provare l'autosufficienza numerica della maggioranza. La nostra intenzione era dimostrare che il Senato è un luogo dove si può lavorare anche senza voti di fiducia. Mi sta a cuore la vitalità democratica del Senato. È la battaglia che conduco da un anno: so bene quali sono i numeri di Palazzo Madama, ma il pericolo maggiore sarebbe cedere alla tentazione dello stallo".
Il Pd attraversa un momento difficile. Il governo Prodi ha giurato esattamente un anno fa: sono seguiti vertici, conclavi, una crisi, i 12 punti, ma il centrosinistra continua a non decollare. Cosa è mancato finora?
"Non sottovalutiamo quello che è accaduto finora. Non è stato un anno passato sulla difensiva o una situazione di stallo. La Finanziaria non è stata un adempimento di rito. Io, però, non sono soddisfatta: il governo ha potenzialità molto più forti, deve renderle evidenti. E il Senato, che rischiava di essere il pantano di questa legislatura, deve continuare sulla strada di una ritrovata centralità del Parlamento. Se qualcuno nella maggioranza o nel governo ha paura di portare al Senato dei provvedimenti, non si preoccupi: qui si discute e ci si confronta, finora i provvedimenti che il governo ha presentato sono sempre stati approvati".
Sarà. Ma di riforme se ne sono viste ancora poche. E i sondaggi sul governo restano negativi.
"Non ho mai visto governi che fanno grandi riforme nel primo anno. Certo, potremmo fare di più: abbiamo dedicato al Senato un'intera seduta al caso Vaccarella, come ci ha chiesto l'opposizione, ed è solo uno degli esempi possibili. Forse si poteva evitare, ma pazienza. Non ci siamo mai opposti alle richieste dell'opposizione, anche quando sono strumentali capiamo che ci sono esigenze che dobbiamo rispettare".
Al Family day parteciperanno alcuni senatori dell'Ulivo, alla contromanifestazione dei laici altri senatori dell'Ulivo. Non è una situazione schizofrenica?
"È una giornata caricata dalla forte ambiguità che caratterizza il Family day. Se fosse solo una manifestazione a favore della famiglia parteciperemmo tutti. È assolutamente fuori discussione che la famiglia è il più forte fattore di coesione di questo Paese. E noi sulla famiglia siamo impegnatissimi: sta arrivando in aula il provvedimento sul cognome dei figli (grazie anche a Rosy Bindi) che coglie questioni come l'identità familiare, la genitorialità di padre e madre, con un emendamento della ministra per cui il figlio riconosciuto potrà finalmente diventare parente della famiglia del genitore che lo riconosce...".
E allora, perché non andate al Family day?
"Come dice Savino Pezzotta, quella è una manifestazione anti-Dico. E io non ritengo che il riconoscimento dei diritti delle persone sia in contrapposizione con l'articolo 29 della Costituzione. Ricorrere alle piazze non è mai una buona politica. Si finisce per esasperare posizioni apodittiche, censure, bolle, scomuniche... Quando mai per difendere i sentimenti delle persone si è pensato di scendere in piazza?"
Intanto è scoppiato il caso del mancato invito della Bindi alle organizzazioni omosessuali alla conferenza sulla famiglia. È una scelta che condivide?
"È una decisione istituzionale. Alla conferenza si parla di famiglia, non sono invitate organizzazioni in rappresentanza delle unioni di fatto che purtroppo non sono ancora riconosciute dal nostro ordinamento. E questo non c'entra nulla con la mia convinzione di riconoscerle al più presto".
Però ha suscitato la reazione del ministro Ferrero: se non vanno i gay, dice, non ci vado neppure io.
"Ci sono tutte le sedi per discuterne. Non accendiamo altri conflitti, bisogna evitare polemiche giornalistiche soprattutto su temi così delicati".
Anna Finocchiaro e Giovanna Melandri Tuttavia sono i temi su cui il popolo del Pd si appassiona. Al congresso dei Ds ogni accenno alla laicità veniva sottolineato con un diluvio di applausi...
"Sono stata a Bologna con Dario Franceschini, la prima uscita del Pd dopo i congressi, è stato lui a difendere prima di me la laicità della politica. Ci sono i teodem che hanno alcune opinioni, ma anche un ben più numeroso gruppo di cattolici democratici che la pensa in modo diverso".
La senatrice Binetti è un problema per il Pd?
"Assolutamente no. Ascolto ogni voce, ma non è quella presenza la cifra del cattolicesimo democratico nel Pd".
Sui valori c'è polemica, ma anche sui soldi. La discussione più dura si è accesa sulla destinazione del tesoretto. Tra due big: il vice-premier Francesco Rutelli e Romano Prodi.
"Faccio un appello: facciano meno interviste e più consigli dei ministri. Si riuniscano e decidano".
È al Senato che si faranno le prove delle grandi intese sulle riforme?
"Sto lavorando da tempo per far crescere l'idea di un bipolarismo mite. Non possiamo continuare con lo scontro all'ultimo sangue, con questo smontare le riforme della legislatura precedente e poi rimontarle: si toglie tranquillità alle imprese, non si fanno progetti e investimenti. Così si ferma l'Italia".
La Lega sembra il partito più disponibile a parlare con il centrosinistra...
"La Lega, ma anche l'Udc. E il capogruppo di An condivide questa analisi. Non possono dirlo, ma sanno che ho ragione".
Resta da convincere Silvio Berlusconi. Dopo i sorrisi dei congressi è arrivato lo scontro sul conflitto di interessi.
"Per lui è una cosa inconcepibile, ma si sbaglia. Si mette di traverso rispetto al Paese se fa così. Dovrebbe ripensarci, se vuole confermare di essere ciò che pensa di se stesso, cioè uno statista".
Se vuole farsi nominare senatore a vita il Cavaliere deve accettare la legge?
"Se vuole fare qualsiasi cosa... Si deve rassegnare".
La riforma elettorale sarà il terreno di incontro? C'è un fantasma che si aggira per i palazzi della politica: il Mattarellum. Riesumerete la vecchia legge elettorale?
"Un fantasma a me molto vicino. Quella legge elettorale è già stata rodata in questo Paese, risponde a un'esigenza che neppure il referendum risolverebbe, ripristinare il collegamento fra gli elettori e gli eletti che ora devono ringraziare solo le segreterie di partito. Certo, servono modifiche: eliminazione dello scorporo, parità tra uomini e donne, divieto di candidature multiple. E poi dobbiamo procedere sulle riforme di cui si parla da troppi anni: poteri e funzioni del Senato, riduzione del numero dei parlamentari, federalismo fiscale".
Dopo il voto francese Rutelli dice che la questione del Pse è risolta. La sinistra non vince da sola, chiuso.
"Un discorso così si potrebbe fare anche per il centro. Se in Francia ci fosse stato il centrosinistra come in Italia, avrebbe vinto".
A parte il Pse, c'è una gran confusione nella gauche, anche quella italiana. Per vincere la sinistra deve inabissarsi?
"Il problema è che la sinistra italiana da sola non è in grado di rispondere alle nuove domande del Paese. È un atto di umiltà: l'identità di sinistra non è una bisaccia che ti metti sulle spalle una volta per tutte. Sono sicura che alla fase costituente del Pd parteciperanno milioni di uomini e donne. E scopriremo che le idee della sinistra, il lavoro, la pace, l'uguaglianza delle persone, non sono morte e sono utili all'Italia di oggi".
Nel Pd c'è una gran dibattito su chi farà il coordinatore: lei ha qualche idea?
"Discuteremo. Non dividiamoci sui dettagli, rischiamo di dilapidare l'entusiasmo creato dai due congressi".
In tanti la invocano come leader: è in corsa?
"Al congresso dei Ds sono rimasta stupefatta dagli applausi, li ho presi come riconoscimento ad un anno faticoso. Una fatica difficile da descrivere. Sarebbe una bugia dire che non mi fa piacere questa attenzione. Ma ora non è il momento di discutere di questo, quando arriverà ne parleremo. Ora sarebbe una discussione oziosa. La novità è questa: partiamo tutti dallo stesso punto. E facciamo entrare nel Pd giovani e donne. O arrivano in forze queste risorse non ancora esauste, oppure il partito fallisce il suo compito. E nel Pd c'è una straordinaria messe di dirigenti femminili. Un nome su tutti: Rosy Bindi".
Non la infastidisce questa storiella maligna: gli uomini (D'Alema, Marini) candidano lei per continuare a comandare loro, magari contro altri (Veltroni)?
"Mi faccia fare uno sfoggio di hidalgismo: nella mia vita politica sono sempre stata contraria all'ancillarismo. È una cosa che mi fa infuriare".
Dovremo smetterla di chiamarla la Ségolène italiana?
"Sì, direi di sì. Ognuno di noi è quello che è".