giovedì 17 gennaio 2008

PRIMARIE: ne vogliamo parlare?

Apriamo un confronto sulle primarie con gli articoli di Andrea Manciulli, segretario regionale del PD toscano e di Claudio Frontera, membro dell'assemblea costituente regionale del PD.

Le voci nel Pd: interviene Claudio Frontera




















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Primarie di Coalizione

La corsa è aperta a tutti



















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mercoledì 16 gennaio 2008

Un'idea malata


La Repubblica
16 gennaio 2008
di Ezio Mauro
Sarà un giorno che ricorderemo negli anni, il giorno in cui il Papa non parlò all'Università italiana per la contestazione dei professori e la ribellione degli studenti. Una data spartiacque per i rapporti tra chi crede e chi non crede, tra la fede e la laicità, persino tra lo Stato e la Chiesa. Fino a ieri, questo era un Paese tollerante, dove la forte impronta religiosa, culturale, sociale e politica del cattolicesimo coesisteva con opinioni, pratiche, culture e fedi diverse, garantite dall'autonomia dello Stato repubblicano, secondo la regola della Costituzione. Qualcosa si è rotto, drammaticamente, sotto gli occhi del mondo. Il Papa deve correggere la sua agenda e cambiare i suoi programmi, per non affrontare la contestazione annunciata di un'Università che lo aveva invitato con il rettore e il senato accademico, ma lo rifiutava con una parte importante di docenti e studenti. Il risultato è un cortocircuito culturale e politico d'impatto mondiale, che si può riassumere in poche parole: il Papa, che è anche vescovo di Roma, non può parlare all'Università della sua città, in questa Italia mediocre del 2008. Questo risultato, che sa di censura, di rifiuto del dialogo e del confronto, è inaccettabile per un Paese democratico e per tutti coloro che credono nella libertà delle idee e della loro espressione. È tanto più inaccettabile che avvenga in un'Università, anzi nella più importante Università pubblica d'Italia, il luogo della ricerca, del confronto culturale e del sapere, un luogo che di per sé non deve avere barriere né pregiudizi, visto che non predica la Verità ma la scienza e la conoscenza. È come se la Sapienza rinunciasse alla sua missione e ai suoi doveri, chiudendosi in un rifiuto che è insieme un gesto di intolleranza e di paura. A mio parere il giorno d'inaugurazione dell'anno accademico non era la data più propria per invitare Benedetto XVI a tenere la sua lectio magistralis; e il rettore si corresse, perché quella lezione non suonasse come un programma e un indirizzo per l'anno dell'Ateneo. Ma è ridicolo chiamare in causa la scienza, come se potesse risultare coartata, offesa o limitata dalle parole del Pontefice, che è anche uno dei grandi intellettuali europei della nostra epoca. Ed è improprio e pretestuoso nascondersi dietro a Galileo, come se i torti antichi della Chiesa nel confronto e nello scontro con la scienza si dovessero pagare oggi, proprio sulla porta d'ingresso della Sapienza, senza tener conto del cammino fatto in tanti anni, e delle parole ancora recenti di Papa Wojtyla. Spedito l'invito, e accettato, l'incontro si doveva fare senz'altro. Per gli studenti sarebbe stata l'occasione particolare di ascoltare direttamente le parole di un Papa che ha passato anni dentro l'Università, e che resta professore anche da Pontefice. I docenti avrebbero avuto la possibilità di interloquire, di fissare e ribadire i punti fermi dell'autonomia dell'insegnamento e della libertà di ricerca, se lo ritenevano opportuno e ne sentivano il bisogno. Il risultato sarebbe stato un confronto di opinioni pubblico e trasparente, di cui non si capisce come si possa aver timore, soprattutto se si è persone di cultura e si deve testimoniare la civiltà italiana ed europea - di cui le Università sono parte costituente - e l'importanza di un confronto di idee, prima ancora di ogni specifico sapere e di ogni scientifica conoscenza. L'impressione è appunto quella di un cortocircuito, dove il gesto ha prevalso sul pensiero, una malintesa idea di autonomia si è stravolta in divieto, la libertà della scienza ha cozzato malamente contro la libertà di parola e la laicità si è ridotta ad una cupa caricatura di se stessa, preoccupandosi di limitare e restringere il perimetro dell'espressione invece di ampliarlo, garantendolo per tutti. È chiaro che l'Università di Stato di un Paese democratico non può rifarsi al pensiero religioso come fonte primaria e costitutiva del suo sistema culturale ed educativo, e nessuno lo ha chiesto o minacciato. Ma è altrettanto evidente - o dovrebbe esserlo per tutti - che l'Università non è e non deve essere un luogo chiuso alla circolazione delle idee, delle esperienze e delle testimonianze, e non può diventare espressione di un pensiero che pensa solo se stesso, rifiutando persone, idee, contributi e confronti. L'unica spiegazione di questa prevalenza dell'irrazionale in una delle sedi proprie della ragione è la confusione italiana di oggi. E dentro questa confusione, l'uso improprio che si fa del confronto tra fede e laicità, e tra credenti e non credenti. Uno dei tratti distintivi dell'epoca è il ritorno della religione nel pensiero pubblico, da cui l'avevamo in qualche modo creduta fuori, per consunzione da un lato, e dall'altro per il raggrumarsi di un civismo post-ideologico attorno a capisaldi diversi da quelli della fede. Questo ritorno è un dato che contraddistingue tutto l'Occidente. In Italia la parola della Chiesa, così innervata nella tradizione, non ha mai smesso di farsi sentire. Ma non c'è alcun dubbio che da quasi un decennio la Cei ha acquistato un protagonismo e una reattività che hanno fatto della Chiesa un prim'attore in tutte le vicende pubbliche: una Chiesa che è insieme parte (perché così dicono i numeri) e Verità assoluta, pulpito e piazza, autorità e gruppo di pressione e chiede di determinare come mai nel passato della Repubblica i comportamenti parlamentari delle personalità politiche cattoliche, pretendendo pubblica obbedienza al magistero. Vorrei essere chiaro: la Chiesa ha il diritto (che per il Concilio Vaticano II è un dovere) di testimoniare la sua dottrina su qualsiasi materia, anche di competenza dello Stato. Ma queste prese di posizione sono destinate alla coscienza dei credenti e a chi riconosce alla Chiesa un'autorità con cui confrontarsi, mentre le scelte politiche spettano ai laici, credenti e non credenti. Nella Chiesa si fa invece strada la convinzione secondo cui i non credenti non riescono a dare da soli un senso morale all'esistenza, perché solo la promessa riconosciuta dell'eternità dà un senso alla vita terrena. Ne deriva una riduzione di dignità dell'interlocutore laico, quasi una riserva superiore di Verità esterna al libero gioco democratico, una sorta di obbligazione religiosa a fondamento delle leggi e delle scelte di un libero Stato. La reazione a questa nuova "potestas" che vorrebbe coinvolgere nel cattivo relativismo la democrazia, perché si basa sulla libertà di coscienza di tutti i cittadini, e vede ogni fede come un valore relativo a chi la professa, viene sempre più da un laicismo di maniera, un compiacimento per l'ateismo come contraddittoria religione della modernità, un risentito anticlericalismo, che credevamo confinato alla stagione adolescenziale della nostra Repubblica. Sopra questa nuova rissosa incomunicabilità ostile, manca il tetto condiviso di una Repubblica serenamente laica, cosciente dei valori della tradizione e delle religioni, capace di difendere la sua autonomia e la sua libertà garantendo la libertà di tutti. I partiti hanno una responsabilità primaria. La destra, incapace di formulare una moderna cultura conservatrice in un Paese che non l'ha mai avuta, prende a prestito dal deposito di tradizione della Chiesa la parte scelta della precettistica, cercando così di procurare un'architrave ad un pensiero inesistente: col risultato di un'alleanza del tutto impropria tra la fede ultraterrena e una prassi politica ultramondana, paganeggiante e vagamente idolatra, alla ricerca entrambe della forza perduta. Per la sinistra, è ancora peggio. Non avendo coscienza di sé e della propria identità, incapace di difendere le ragioni che dal pensiero e dall'esperienza rinnovati potrebbero tranquillamente derivare, chiede soltanto - in ordine sparso di conversione, o almeno di gregarietà - di poter occupare uno strapuntino dentro il senso comune dominante, anche se è senso comune altrui: così, in un angolo, con la garanzia di non infastidire con il turbamento di un pensiero vagamente autonomo, per una volta netto, pronunciato in nome di una sinistra finalmente moderna, laica, europea e occidentale. In mezzo si muovono felici gli atei devoti, a cui nessuno chiede di credere in Dio, di applicare anche a sé la convinzione che il cristianesimo non è una cultura, una filosofia, un galateo politico o sociale ma un "avvenimento", ma a cui nessuno impedisce di selezionare a piacere nel pensiero cristiano, nei Vangeli e persino nelle parole degli ultimi Papi i precetti, i divieti, le norme, rinunciando a tutto il resto: che è molto, che sarebbe importante, e che completerebbe l'immagine del Dio italiano, che così invece cammina monco, sanzionatorio e di parte, un Dio "cristianista", cioè ideologizzato e ridotto a strumento. È il brutto panorama di un Paese in cui si cede troppo spesso alla tentazione sacrilega, come la chiamava Andreatta, di coinvolgere Dio nelle proprie scelte. Ma se questo è il quadro, ed è preoccupante, perché banalizzarlo nella caricatura dello scontro culturale della Sapienza, che si rivolge necessariamente nel contrario: una censura ad un Papa, nel nome malinteso di una laicità che invece dovrebbe ribellarsi ad ogni intolleranza, soprattutto nei confronti di fedi e credo religiosi? Non c'è alcun dubbio. Nell'Italia d'argilla del 2008, non è nel nome di un'idea forte che si è pensato di vietare al Papa la Sapienza, ma di un'idea malata. Una malattia che ha già fatto due vittime: la libertà di espressione, naturalmente, e la laicità: che già non godeva di buona salute, in questo sfortunato Paese.

venerdì 11 gennaio 2008

Ma quello statuto aiuta le oligarchie

CORRIERE DELLA SERA – 11 GENNAIO 2008
di Filippo Andreatta
Questa settimana, Galli della Loggia, Sartori e Panebianco hanno avanzato forti dubbi sulle posizioni del Pd. Il preoccupante giudizio di autorevoli commentatori è motivato da alcuni vizi di origine. L'infelice decisione di rinunciare a partire prima delle elezioni del 2006, innanzitutto, ha impedito di usare il Pd per allargare la (risicata) vittoria elettorale del centrosinistra e di collegare la leadership del partito alla carica istituzionale di primo ministro, perpetuando il deleterio dualismo tra partiti e istituzioni. La timidezza di Veltroni durante la campagna elettorale per le primarie, che ha cercato di legittimarsi sul sostegno popolare ma anche su quello delle oligarchie, lo ha poi vincolato quando queste ultime — passata la sbornia delle primarie — hanno cercato di mettere in atto i loro tradizionali condizionamenti.
Queste difficoltà vengono al pettine su due argomenti che sono decisivi per il futuro del Pd e dell'intero sistema politico. Da un lato, la posizione del Pd sulla legge elettorale è risultata ondivaga e contraddittoria, a seconda degli equilibri interni ed esterni al partito, e ha indotto a molteplici inversioni di rotta nell'arco di poche settimane. Dopo aver tenuto una posizione vagamente simpatetica nei confronti del referendum, la leadership del Pd ha proposto un complesso meccanismo proporzionale «spagnoleggiante » esplicitamente alternativo sia al referendum sia al sistema tedesco, per poi suggerire (per bocca del vicesegretario) una preferenza per il sistema francese (semipresidenziale con maggioritario a doppio turno), per poi infine tornare su un sistema proporzionale basato sul sistema tedesco.
Dall'altro lato, mentre la discussione sulla legge elettorale è ancora lontana dall'essere risolta, il dibattito sullo statuto del Pd ha sollevato questioni che riguardano non solo la vita interna del partito, ma il suo rapporto con gli elettori e le istituzioni. Vale quindi la pena di sottolineare due aspetti in particolare del dibattito statutario. In primo luogo, il Pd si dichiara, per quanto concerne la selezione della classe dirigente, il partito delle primarie sia per l'elezione del segretario nazionale sia per l'indicazione dei candidati ai vari livelli (sindaco, presidente di Regione, ecc.). Viene però clamorosamente escluso il metodo delle primarie per la selezione del livello più importante di tutti, quello dei candidati al Parlamento. La selezione dei legislatori del Pd, e del nucleo centrale della sua classe dirigente nazionale, verrebbe quindi lasciata alle spartizioni tra oligarchie o alle cooptazioni (magari con lista bloccata), frustrando le promesse di cambiamento del ceto politico che hanno entusiasmato tanti sostenitori del nuovo soggetto.
In secondo luogo, per quanto riguarda il ruolo del leader, il Pd intenderebbe superare il dualismo tra cariche di partito e istituzionali, candidando a premier il proprio segretario. In assenza di un sistema elettorale o istituzionale certo, però, questo obiettivo è tutt'altro che sicuro. Da un lato, una candidatura automatica potrebbe risultare troppo rigida per un sistema nel quale, come nelle ipotesi proporzionaliste oggi in discussione, si dovessero rendere essenziali con ogni probabilità delle coalizioni tra più partiti. Dall'altro lato, sarebbe in ogni caso necessario sincronizzare le elezioni del segretario- candidato-premier al ciclo elettorale e al ritmo delle legislature. Si correrebbe altrimenti il rischio di trovarsi con un premier appena eletto che deve sottoporsi alle primarie del proprio partito per rimanere in carica, oppure di trovarsi con un segretario eletto da poco che rimarrebbe in carica anche dopo una sconfitta elettorale.
Queste contraddizioni sono il frutto delle ambiguità con cui è venuto alla luce il Pd, e dei dubbi di un ceto politico ancora indeciso tra un'autentica innovazione e la conservazione con qualche ritocco di facciata. Ma sono anche il frutto di un'affrettata e sciagurata tabella di marcia, che ha sovvertito la logica successione di riforma istituzionale, riforma elettorale e statuti di partito. Come si possono infatti stabilire le regole di selezione dei candidati alle cariche di parlamentari e premier se non si conoscono i loro metodi di elezione e, più in generale, i ruoli di Parlamento e governo? Forse, per il bene del Pd e della politica italiana, sarebbe saggio che la girandola di proposte di questi ultimi tempi lasciasse il posto a una discussione approfondita sulla forma di governo della quale il Paese ha bisogno, per poi discutere dei meccanismi elettorali più adatti, e infine di quelle regole interne ai partiti che hanno una ricaduta elettorale. Si rischia in caso contrario la redazione di uno statuto che non solo delude le aspettative di tanti che continuano a credere nel progetto del Pd, ma che è anche disfunzionale al rinnovamento delle istituzioni politiche del nostro Paese.

mercoledì 9 gennaio 2008

ADDIO SECONDA REPUBBLICA

da Corriere della Sera del 9 gennaio 2008
di Pierluigi Battista
Sepolte sotto una montagna di rifiuti, giacciono le spoglie della Seconda Repubblica. Il sogno infranto del «grande cambiamento » lascia le sue scorie nella discarica della vergogna. Marciscono le promesse e i sogni fioriti quindici anni fa. E si chiude nel peggiore dei modi la chimera di un fantastico «nuovo Rinascimento »: non solo la sigla magniloquente di un esperimento che ha trovato in Antonio Bassolino il suo profeta, ma la presunzione fatale di un ciclo politico che avrebbe dovuto archiviare per sempre i fantasmi di un Medioevo chiamato Prima Repubblica. Tutto seppellito nel caos e nelle fiamme della jacquerie napoletana, mentre l'Italia della Seconda Repubblica prende la forma dei cumuli di spazzatura che le tv di tutto il mondo trasmettono come simbolo umiliante del nostro Paese.
Altro che Rinascimento italiano.
Persino le date parlano di un fallimento. È comprensibile che Bassolino non voglia arrendersi all'idea feroce di passare come il capro espiatorio del disastro di questi giorni. Ma è proprio nella sua figura che si compendia la vicenda delle speranze e delle disillusioni nate nella Seconda Repubblica. Nell'autunno del '93 (esattamente quindici anni fa, appunto) la sua elezione al ruolo di primo cittadino di Napoli venne salutata come un nuovo inizio di salvezza nazionale. Nacque la stagione dei sindaci direttamente eletti dal popolo. Si inaugurò l'era dell'ammirazione per il «partito dei sindaci», capaci di scavalcare le oligarchie obsolete del passato grazie a un caldo rapporto personale e carismatico con gli elettori. Per completare il grande cambiamento annunciato dal crollo dell'ancien régime, Mario Segni coniò l'immagine suggestiva del «sindaco d'Italia», risolutore illuminato dei problemi italiani, figura che incarnasse la fiducia dei cittadini nelle istituzioni rinnovate e depurate dalle miserie di un passato coralmente ripudiato.
Bassolino era il «nuovo » sindaco per eccellenza, il riscatto dalle infamie di una Napoli che la vecchia politica aveva consegnato alle rapaci mani sulla città denunciate da Francesco Rosi, all'epidemia di colera del '73, al malaffare della ricostruzione post terremoto.Ecco perché l'immondizia che soffoca Napoli appare come un crudele contrappasso destinato a travolgere nella desolazione e nell'indignazione l'immagine del suo Sindaco per antonomasia.
Era il «nuovo» della Seconda Repubblica e il fetore dei sacchi di monnezza ne ha distrutto l'incanto. Ha ragione Raffaele La Capria: le piramidi di rifiuti stavano raggiungendo la cima del Vesuvio e intanto la Seconda Repubblica si contemplava come Narciso nel suo presuntuoso nuovismo tutto immagine, tutto comunicazione, tutto pubbliche relazioni e autopromozione.Ma Napoli è solo la versione macroscopica di un caso italiano senza redenzione.
Quindici anni in cui sono nate Bicamerali per le riforme, si sono vagheggiate senza requie assemblee costituenti, si sono invocati confronti costruttivi tra gli schieramenti, ma che ancora non sono stati sufficienti per trovare un minimo accordo su una legge elettorale decente e condivisa.
Quindici anni trascorsi a discettare sull'«anomalia» italiana, senza che un solo passo concreto abbia provveduto a sanarla.
Quindici anni che non sono bastati a smaltire l'ebbrezza della «rivoluzione giudiziaria » che travolse nel disonore la Prima Repubblica, sperando senza confessarselo che i giudici potessero completare il lavoro a danno del nemico politico: salvo accorgersi troppo tardivamente che a Napoli la magistratura nulla sa dello scandalo della spazzatura che oscura il Vesuvio ma in compenso si prodiga alacremente per sciogliere il mistero delle vallette raccomandate.
Quindici anni vissuti nell'ossessione di Berlusconi, convinti che con la sua eventuale uscita di scena i problemi si sarebbero dissolti, che la spazzatura si sarebbe smaterializzata, che la buona amministrazione avrebbe trionfato in virtù di una supposta superiorità morale.
Quindici anni a maledire i vecchi partiti, i rimasugli che ne restavano, gli apparati impegnati ad arrestare il luminoso avanzamento del «nuovo », del puro, dell'incorrotto e dell'incorruttibile.Nell'incendio appiccato a Napoli si assiste così a un gigantesco falò delle vanità che, con un'estensione molto più tragica di quello raccontato da Tom Wolfe, incenerisce l'ideologia autoconsolatoria della Seconda Repubblica. Si spalanca una voragine tra le promesse e le realizzazioni, tra i propositi e i risultati. Ma questa non sarebbe una novità. È nuova invece, e sconvolgente, la rivelazione della spaventosa vacuità di quel discorso ideologico. Un'ideologia, una retorica, un lessico che hanno sostituito la realtà, trascinando nell'autocompiaciuto rigetto del passato ogni esame serio dei mali che avevano messo la pietra tombale sulla Prima Repubblica. Hanno degradato la politica all'arte dell'apparire e del proclamare, rinviando sine die ogni soluzione credibile. È più di una delusione: è la scoperta di un bluff durato quindici anni. Anche nei primi anni del dopoguerra democratico presero forma potenti correnti di delusione, di scoramento, persino di rimpianto nostalgico per l'Italia del vecchio regime. Ma la Repubblica democratica tenne, perché poggiava su qualcosa di solido e conservava ancora il senso di una missione comune, malgrado la Guerra fredda e la spaccatura dei blocchi contrapposti. Oggi invece, sotto la spazzatura il nulla. Solo la fine del personalismo plebiscitario surrogato di leadership autentiche, le bandiere oramai stinte del «sindaco d'Italia», la stanchezza per un bipolarismo astioso, inconcludente e intontito dai suoi propri annunci. Il de profundis della Seconda Repubblica, e della sua fascinazione oramai corrosa dal tempo. Delegittimata dal confronto con i successi altrui. Svuotata dal dubbio che nel mondo la «nuova» Italia stia perdendo la partita decisiva, resa per noi impraticabile da un mare di spazzatura.




lunedì 7 gennaio 2008

GLI ITALIANI RESI INFELICI DALLA POLITICA

La Repubblica
5 gennaio 2008

ANDREA MANZELLA
Perché siamo una Italia «infelice», come scrivono i giornali stranieri? Perché «l´insicurezza e la sfiducia», di cui parla anche il presidente del Consiglio?
Avviene perché abbiamo perso le due certezze sociali che hanno nutrito la Repubblica da quando è nata.
In primo luogo, la certezza dell´appartenenza politica.
Siamo stati di volta in volta fascisti o antifascisti, comunisti o anticomunisti, berlusconiani o antiberlusconiani. Ora, come i ghiacciai, le ultime coalizioni contrapposte (che si portavano comunque, rappreso dentro, il senso di quelle profonde fratture) si stanno sciogliendo.
Ma questo non avviene, come pensano gli ultimi mohicani legati agli alberi delle rispettive origini, perché siamo in preda ad un "trasformismo" di massa, guidato da leader reciprocamente apostati. Questo avviene perché il movimento delle idee e delle persone del mondo, la maniera dell´organizzazione del lavoro e del tempo, la significanza dei costumi e delle religioni impongono a tutto quello che si chiama «politica», una svolta, uno sforzo: per capire, per rappresentare, per indirizzare.
La politica non è più nella "politica". È altrove. E rispetto a questo "altrove" si devono regolare nuovi confini, preparare nuovi scontri, "vedere" nuovi leader, capaci di pensiero e di azione. Ma intanto siamo nell´infelicità che nasce dall´incertezza su quello che politicamente siamo...
In secondo luogo, non abbiamo più la certezza della Repubblica una e indivisibile. Avvertiamo come ferite ripetute, i segni della disgregazione territoriale. I governi di mafia "contro lo Stato", i governi localistici "fuori dallo Stato". A sessant´anni dalla Costituzione, ne sentiamo non la vecchiaia o l´inadeguatezza (come dicono i "revanscisti" costituzionali: quelli che dal disegno ideale del 1948 si sono chiamati fuori) ma la perdurante inattuazione. Sentiamo cioè che le autonomie territoriali non sono state attuate nella loro pienezza costituzionale. Non solo e non tanto nei loro poteri "prossimi" ai cittadini - da quelli sulla sicurezza a quelli fiscali - quanto nella connessione tra loro e con lo Stato centrale: in un disegno complessivo repubblicano. Fughe in avanti e fughe dalle responsabilità, un arcipelago di isole asimmetriche, la variabilità dei diritti locali, il diverso adattamento allo spazio europeo, le pulsioni secessioniste, un Parlamento bicamerale ma senza rappresentanza territoriale. Ecco l´infelicità che nasce dall´incertezza sull´unione nazionale....
È la coscienza di questa duplice incertezza di fondo che deve guidare il lavoro: per riorganizzare la politica, anche con una legge elettorale; per riordinare la Repubblica, anche con una revisione costituzionale. Nell´un caso e nell´altro è infatti fuori della realtà la rincorsa di modelli astrattamente persuasivi e «tecnologicamente avanzati»: ma la cui attuazione si scontrerebbe con la durezza di reazioni insuperabili nell´attuale emergenza.
Vediamo la questione elettorale. Dal 1994 siamo alla ricerca di una «quadra» per difficili obiettivi: il giusto rapporto eletti-elettori, la scelta elettorale preventiva di chi deve governare, l´alternanza, la stessa "governabilità". Ma ora questi obiettivi devono potersi coniugare, e magari cedere il passo, ad un bene che oggi appare, ed è, primario. Lo scopo essenziale da porsi è infatti quello di rendere adeguato il sistema politico e parlamentare alle nuove linee di consenso e di frattura che si sono aperte nella società.
L´abbiamo detto: la liquefazione in corso delle coalizioni che ingessano il parlamento, le nuove aggregazioni politiche tentate e quelle in gestazione, non obbediscono a capricci o improvvisazioni di leader solitari. Certo, nei modi c´è anche questa forzatura di procedure che provoca distorsioni di immagine.
Ma, al di là delle spallate verticistiche, vi è autentico lo sforzo di interpretare una geografia politica cambiata nelle dimensioni e nei confini. Uno sforzo «costituente» che disegni il terreno per una lotta politica appropriata al mutamento delle cose.Se questo è il bene pubblico principale, la sola irrinunciabile preoccupazione della nuova legge elettorale dovrebbe essere quella di evitare la polverizzazione della rappresentanza, la tribalizzazione del Parlamento. Ma, sbarrata la soglia a chi rappresenta se stesso, sarebbe un gravissimo errore pretendere di proiettare nel futuro lo stesso forzato meccanismo di formazione che ha dato vita alle colazioni esistenti. Si impedirebbe, così, con artificiose tecniche elettorali, la scomposizione e la ricomposizione del nostro sistema politico su basi dettate dai movimenti reali e dalle persuasioni popolari che vi corrispondono.Da questo punto di vista, il referendum (pur meritorio: per coraggio di promotori e per il fine, già raggiunto, di dimostrare la necessità del cambiamento) appare ancorato alla logica meccanica che porta a coalizioni giustamente definite "coatte": senza più corrispondenza con la società politica effettiva. E perciò il suo nudo risultato sarebbe non innovativo ma più che conservatore.Vediamo la questione costituzionale. Per vincere l´altra e, forse, più grave incertezza causata da una Repubblica "lontana" dal territorio, vi è la necessità di incardinare il suo funzionamento intorno al principio costituzionale di autonomia.
Questo include in sé l´idea di coordinamento nazionale: e questo legamento deve essere visibile in Parlamento, come rappresentanza di città e regioni, come capacità di decidere insieme la conciliazione dei loro interessi. Dare voce alla "territorialità" nel centro della Repubblica non è dunque un optional: è una necessità.
Di fronte al deperimento dell´unità territoriale della Repubblica, solo l´istituzione di un Senato "federativo" può frenare la diaspora: come luogo di assorbimento e di razionalizzazione delle cento spinte centrifughe. Non è vero che per una tale - puntuale - riforma costituzionale occorrono tempi lunghi: con il consenso, basterebbero meno di nove mesi. Né è decente dire che l´opposizione dei senatori in carica appare insuperabile: vi è un patriottismo istituzionale che deve e può prevalere a Palazzo Madama. Magari non sarà precisamente la riforma su cui vi è già avanzato progetto alla Camera dei deputati: ma la prossima legislatura, per vicina che sia, deve poter contare su un bicameralismo che rappresenti veramente, e tenga insieme, le molte e varie autonomie territoriali. E il governo in tutto questo? Il governo deve essere "neutrale" sia sul versante elettorale sia su quello della riforma costituzionale del sistema parlamentare. Lo può essere benissimo l´attuale governo, se supera evidenti difficoltà numeriche più che politiche. Il bilancio esposto nei giorni scorsi dal presidente del Consiglio è dignitoso, onesto, serio. E chiari i propositi. Sbaglia perciò certamente chi fa del governo, per vendetta trasversale, lo «scudo umano» che dovrebbe impedire leggi elettorali con un minimo di ragionevolezza. Ma il ruolo di neutralità potrebbe, per necessità, essere svolto anche da un altro governo che si assuma la responsabilità di assicurare i termini temporali del lavoro "costituente" da portare a compimento. E certo sbaglia chi sostiene che in una Repubblica parlamentare quale è rimasta la nostra (pur dopo la svolta maggioritaria del 1994) questa possibilità non esiste. Nell´un caso e nell´altro, gli stranieri ci guardano: testimoni compassionevoli della nostra attuale "infelicità".

domenica 6 gennaio 2008

LA PAROLA TORNA AI FONDATORI

In Toscana, così come previsto dal regolamento approvato dal Coordinamento regionale del Pd, tutti i votanti delle primarie del 14 ottobre potranno ricevere il certificato di "Fondatore del Partito Democratico".
Potranno richiederlo anche coloro che non hanno partecipato al voto di ottobre, rivolgendosi di persona agli Utap, gli Uffici tecnico-amministrativi provinciali.
Spetterà ai Coordinamenti territoriali del Pd stabilire le modalità di consegna e il calendario delle iniziative per la distribuzione dei certificati.
Ai Fondatori, al ritiro, sarà chiesto un contributo volontario.
I Fondatori saranno poi chiamati a prendere parte alle assemblee dei rispettivi Circoli di base, che saranno convocate entro il 31 gennaio dai Coordinatori territoriali provvisori, eletti il 24 novembre scorso.
Nel corso delle assemblee dei Circoli, i Fondatori voteranno anche per eleggere i delegati alle assemblee comunale e territoriale.
Le autocandidature a delegato per i livelli comunale e territoriale possono essere presentate all'Utap o all'inizio dei lavori dell'assemblea di Circolo.
Il voto avviene in forma segreta.
Ogni Fondatore riceverà due schede: una per l'elezione dei delegati all'assemblea comunale e una per eleggere quelli dell'assemblea territoriale.
Per ogni scheda esprimerà un voto per un uomo e un voto per una donna.
I delegati eletti nelle assemblee comunali e provinciali, insieme agli eletti delle primarie del 14 ottobre, si riuniranno poi, entro il 10 febbraio, per eleggere il coordinatore di circolo, il segretario comunale e il segretario territoriale.

Regolamento per lo svolgimento delle Assemblee dei Circoli di base
Visto il contenuto dei Dispositivi approvati dalle Assemblee Costituenti nazionale e regionale e vista la Deliberazione assunta dai Segretari regionali d’intesa con il Segretario Nazionale, il Coordinamento del PD della Toscana, composto dal Segretario regionale e dai Coordinatori territoriali provvisori, assume le seguenti decisioni per lo svolgimento delle Assemblee dei Circoli di base:
1. Tempistica
Dal 5 dicembre 2007 è indetta una “Campagna per la costruzione del Partito Democratico della Toscana”: tutti i cittadini inclusi nei registri dei votanti delle primarie del 14 ottobre potranno richiedere e ricevere il Certificato di “Fondatore del Partito Democratico”. Spetta ai Coordinamenti territoriali stabilire le modalità di consegna e il calendario delle iniziative per la distribuzione dei certificati. I Coordinamenti territoriali si fanno carico di informare, nelle forme che saranno ritenute più idonee, tutti gli elettori delle primarie rispetto a tali iniziative e alle modalità di consegna dei Certificati. L’Esecutivo regionale promuove in tal senso una campagna di comunicazione su tutto il territorio della Toscana. La consegna dei Certificati prosegue anche dopo lo svolgimento delle Assemblee dei Circoli e fino all’avvio delle modalità di adesione al PD che saranno definite dallo Statuto nazionale.
Dal 12 dicembre e fino al 31 gennaio sono convocate dal Coordinatore territoriale provvisorio, d’intesa col Segretario regionale, le Assemblee dei Circoli di base. Le Assemblee dei Circoli di uno stesso comune devono tendenzialmente essere convocate nella stessa giornata. All’atto della ricezione del Certificato, ad ogni Fondatore deve essere comunicata la data e il luogo di svolgimento della propria Assemblea di base.
Entro il 10 febbraio e comunque dopo lo svolgimento delle Assemblee dei rispettivi Circoli di base, sono convocati i Coordinamenti di Circolo e le Assemblee comunali.
Il calendario delle Assemblee di base, dei Coordinamenti dei Circoli e delle Assemblee comunali, comprensivo dei relativi presidenti/garanti e dei tempi di apertura delle operazioni di voto, è approvato dal Coordinamento territoriale.
Entro il 24 febbraio, e comunque dopo lo svolgimento delle Assemblee dei rispettivi Circoli e delle Assemblee dei comuni di propria competenza, sono convocate le Assemblee territoriali. Il calendario delle Assemblee territoriali viene stabilito dal Segretario regionale, d’intesa con i rispettivi Presidenti e Coordinatori provvisori.
2. Forme di partecipazione di coloro che non hanno votato alle primarie del 14 ottobre
I cittadini elettori del Partito Democratico che non hanno partecipato alle primarie del 14 ottobre ma che intendono dare il loro contributo al lavoro di costruzione del partito sul territorio, per partecipare con diritto di voto alle Assemblee di base, devono richiedere di persona all’Utap il certificato di “Fondatore del PD” non oltre il giorno precedente allo svolgimento della propria Assemblea. A tale scopo è compito dell’Utap rendere pubbliche le modalità e gli orari di accesso ai propri uffici.
3. Organizzazione sul territorio e ambito di competenza delle Assemblee dei Circoli di base
Il Coordinamento territoriale stabilisce le modalità provvisorie di radicamento e di organizzazione del PD nell’area di propria competenza.
L’ambito di competenza territoriale di ogni Circolo di base, che di norma deve corrispondere a quello di uno o più seggi delle primarie del 14 ottobre, è stabilito dal Coordinamento territoriale. Di conseguenza possono partecipare alle Assemblee di un Circolo gli elettori dei seggi afferenti a quel Circolo. Ogni Fondatore fa parte di un unico Circolo di base.
4. Svolgimento delle assemblee
Possono partecipare con diritto di voto tutti i Fondatori della realtà territoriale su cui il Circolo è competente. Le assemblee si svolgono in forma pubblica e il diritto di parola deve essere assicurato anche ai non Fondatori. I Certificati di “Fondatore del PD” possono essere ritirati dagli elettori delle primarie del 14 ottobre, anche durante lo svolgimento delle assemblee. Oltre alle operazioni di voto, le assemblee devono comprendere uno spazio dedicato al dibattito per affrontare ogni aspetto relativo alla costruzione e al radicamento del partito sul territorio. Le Assemblee possono far pervenire alle Commissioni istituite dalla Costituente Regionale, contributi e documenti utili al loro lavoro di redazione dello Statuto e del Manifesto programmatico del PD della Toscana.
Il Presidente/Garante in apertura illustra ai presenti le modalità di svolgimento dell’assemblea e i relativi compiti e dichiara formalmente costituito il Circolo di base del PD, in attesa della configurazione definitiva che sarà stabilità dopo l’approvazione degli Statuti nazionale e regionale.
L’assemblea deve provvedere, ai sensi dei successivi punti, alla elezione dei delegati alle Assemblee comunale e territoriale.
5. Coordinamenti di Circolo
Fanno parte del coordinamento di Circolo i membri di diritto ed eletti nelle Assemblee comunale e territoriale afferenti al Circolo stesso.
6. Assemblee comunali del PD
Sono delegati di diritto nell’Assemblea comunale gli eletti nelle Assemblee costituenti nazionale e regionale residenti nel comune, nonché il Sindaco e il Capogruppo comunale del PD (o, se del PD, dei gruppi unitari del centrosinistra) e, se residenti nel comune, il Presidente della Provincia e il Capogruppo provinciale del PD, i Consiglieri regionali e i Parlamentari aderenti a gruppi del PD. Sono inoltre delegati di diritto nell’Assemblea comunale i coordinatori dei Circoli di base del PD.
Per ogni comune, il Coordinamento territoriale stabilisce d’intesa con il Segretario regionale, il numero dei votanti alle primarie del 14 ottobre per l’Assemblea Costituente regionale, grazie al quale scatta un delegato da eleggere nella Assemblea comunale. Tale numero non può essere superiore a 150. Ogni Assemblea di Circolo elegge, con le modalità descritte nel punto 8, un numero di delegati pari alla quantità di votanti alle primarie, diviso tale numero e arrotondato all’intero superiore solo se il resto decimale è superiore a 50. In ogni caso ad ogni Assemblea di Circolo spetta almeno un delegato all’Assemblea comunale.
7. Assemblee provinciali o territoriali del PD
Dell’Assemblea territoriale fanno parte di diritto i membri del Coordinamento territoriale esistente. Sono inoltre delegati di diritto nell’Assemblea territoriale i Segretari comunali del PD.
Il Coordinamento territoriale stabilisce il numero dei votanti delle primarie del 14 ottobre per l’Assemblea Costituente regionale, grazie al quale scatta un delegato da eleggere nella Assemblea territoriale. Tale numero non può essere superiore a 300. Ad ogni comune viene assegnato un numero di delegati pari alla quantità di votanti alle primarie, diviso tale numero e arrotondato all’intero superiore solo se il resto decimale è superiore a 50. In ogni caso per ogni comune spetta almeno un delegato all’Assemblea territoriale.
I delegati assegnati ad ogni comune vengono ripartiti tra le Assemblee dei rispettivi Circoli, proporzionalmente al numero di votanti del 14 ottobre per l’Assemblea Costituente Regionale. Ogni Assemblea elegge i propri delegati con le modalità descritte nel punto 8.
8. Modalità di presentazione delle autocandidature e elezione dei delegati comunali e territoriali
Le autocandidature a delegato per il livello comunale e/o territoriale possono essere presentate o all’Utap competente entro il giorno precedente all’Assemblea del Circolo, con le modalità rese pubbliche dall’Utap stesso, oppure al Presidente dell’Assemblea del Circolo di base entro 60 minuti dall’inizio dei lavori dell’Assemblea stessa. Ogni candidato può presentarsi come candidato in un’unica Assemblea, eventualmente anche diversa da quella dove risulta aver ritirato il Certificato di Fondatore. Ogni candidato, pena esclusione, deve aver ritirato il certificato di “Fondatore del PD”.
Il voto dei presenti alla Assemblea dei Fondatori avviene in forma segreta. Ogni Fondatore esprime un voto per un uomo e un voto per una donna. Le schede sono predisposte graficamente dal Coordinamento regionale e dovranno contenere due spazi in bianco per indicare esplicitamente i due nominativi. Nei locali dell’Assemblea devono essere esposte le liste dei candidati e delle candidate a delegato per il livello comunale e per il livello territoriale. Il voto avviene negli orari definiti come da punto 1, eventualmente anche su più giorni e a prescindere dalla durata del dibattito nella Assemblea.
Sulla base del numero di voti ricevuti e nel rispetto della norma sulla parità tra i due sessi, si procede all’individuazione degli eletti. La differenza di numero di eletti di sesso diverso non può essere superiore a una unità, pena l’annullamento del voto del Circolo.
Al termine delle Assemblee di un comune, si procede all’eventuale riequilibrio di genere, aggiungendo un numero di delegati o di delegate sufficienti a comporre l’assemblea in modo paritario tra i due generi. Per procedere a tale riequilibrio si considerano i primi non eletti di ciascuna assemblea messi nell’ordine dato dal numero di voti personali ricevuti.
Analogo riequilibrio deve essere compiuto per il livello territoriale.
9. Elezione dei Coordinatori dei Circoli, dei Segretari comunali e dei Segretari territoriali
Sulla base delle platee definite nei punti 6, 7 e 8, e nel rispetto della tempistica definita nel punto 1, vengono convocati i Coordinamenti di Circolo per la elezione dei Coordinatori di Circolo e le Assemblee comunali e territoriali per la elezione dei rispettivi Segretari. Nelle realtà comunali costituite da un solo Circolo, il Coordinatore del Circolo assume l’incarico di Coordinatore comunale.
Il Presidente/Garante stabilisce un termine temporale di non più di 15 minuti dall’apertura dei lavori per la presentazione delle candidature. Le candidature devono essere accompagnate da non meno del 5% e da non più del 10% di firme di delegati. Possono essere candidate anche persone che non facciano parte delle relative Assemblee, purché abbiano ritirato il Certificato di “Fondatore del PD”.
A conclusione dei minuti previsti, il Presidente dà la parola ai candidati, nell’ordine di presentazione, dando loro lo stesso tempo per presentare la propria Dichiarazione di intenti.
Al termine di tali interventi viene aperto il seggio per il voto. Le operazioni di voto e di scrutinio vengono gestite da 2 o più scrutatori individuati dal Presidente.
Al termine dello scrutinio il Presidente dà immediatamente lettura del risultato. Se nessun candidato è stato votato dalla maggioranza dei presenti, si procede immediatamente al turno di ballotaggio tra i primi due candidati.
Relativamente ai Coordinatori di Circolo e ai Segretari comunali, se non vi sono candidature presentate oppure se anche il secondo turno ha esito nullo, il Segretario territoriale, eletto come da punto 9, nomina un Coordinatore pro-tempore per la gestione delle attività fino al primo congresso del PD.
10. Utilizzo degli elenchi dei votanti alle primarie e degli elenchi dei Fondatori
Gli elenchi dei votanti alle primarie e gli elenchi dei Fondatori sono di esclusiva proprietà del Tesoriere regionale del PD al quale devono essere consegnati non appena è stata conclusa l’opera di digitalizzazione da parte degli Utap. L’unico altro utilizzo consentito agli Utap senza preventiva autorizzazione è quello per la convocazione delle Assemblee e delle iniziative del partito per la distribuzione dei Certificati. Ogni altro utilizzo deve essere preventivamente autorizzato dal Tesoriere regionale e deve comunque rispondere ai criteri di imparzialità, trasparenza e tutela della privacy.
11. Organi di garanzia e supporto organizzativo
Gli Uffici tecnico-amministrativi provinciali per le primarie del 14 ottobre, oltre ai compiti descritti nel presente articolato, devono supervisionare sul corretto svolgimento delle operazioni descritte nel presente dispositivo e supportare il Coordinatore territoriale provvisorio e il Responsabile organizzazione nel lavoro di realizzazione di ogni passaggio. I singoli membri degli Utap di Livorno e Lucca sono competenti per il solo territorio in cui risiedono.
Il Collegio regionale dei Garanti decide sulle controversie sorte in fase di applicazione delle norme contenute nel presente dispositivo e vigilano sul corretto e imparziale svolgimento delle procedure. Eventuali reclami o ricorsi possono essere presentati da ciascuno dei partecipanti, al Collegio dei garanti regionale entro le 48 ore successive al fatto denunciato. I Garanti si pronunciano in modo inappellabile entro le 48 ore successive.
12. Disciplina delle campagne elettorali
Il comportamento dei candidati ad ogni carica deve essere ispirato a criteri di sobrietà, correttezza e rispetto del partito e di ogni altro soggetto coinvolto.
Non è in ogni caso ammessa da parte di ogni singolo candidato ad ogni ruolo le spedizioni postali e la pubblicazione a pagamento di messaggi pubblicitari o di propaganda elettorale su mezzi radiotelevisivi, testate giornalistiche o altri organi di stampa e informazione, e comunque non sono consentite attività propagandistiche personali che comportino una spesa.
13. Contributi volontari
All’atto della ricezione del Certificato, ad ogni Fondatore viene chiesto un contributo volontario per finanziare la fase costituente e le iniziative di costruzione del PD sul territorio. Tali contributi vengono trasferiti al Tesoriere territoriale che: li restituisce per il 20% al livello comunale nel momento della nomina del tesoriere comunale del PD; per il 70% rimangono a disposizione del Coordinamento territoriale anche per finanziare le attività di promozione della Campagna di costruzione del PD; per il restante 10% vengono trasferiti al Tesoriere regionale per il finanziamento delle iniziative del PD toscano nell’ambito della stessa Campagna.