CORRIERE DELLA SERA – 11 GENNAIO 2008
di Filippo Andreatta
Questa settimana, Galli della Loggia, Sartori e Panebianco hanno avanzato forti dubbi sulle posizioni del Pd. Il preoccupante giudizio di autorevoli commentatori è motivato da alcuni vizi di origine. L'infelice decisione di rinunciare a partire prima delle elezioni del 2006, innanzitutto, ha impedito di usare il Pd per allargare la (risicata) vittoria elettorale del centrosinistra e di collegare la leadership del partito alla carica istituzionale di primo ministro, perpetuando il deleterio dualismo tra partiti e istituzioni. La timidezza di Veltroni durante la campagna elettorale per le primarie, che ha cercato di legittimarsi sul sostegno popolare ma anche su quello delle oligarchie, lo ha poi vincolato quando queste ultime — passata la sbornia delle primarie — hanno cercato di mettere in atto i loro tradizionali condizionamenti.
Queste difficoltà vengono al pettine su due argomenti che sono decisivi per il futuro del Pd e dell'intero sistema politico. Da un lato, la posizione del Pd sulla legge elettorale è risultata ondivaga e contraddittoria, a seconda degli equilibri interni ed esterni al partito, e ha indotto a molteplici inversioni di rotta nell'arco di poche settimane. Dopo aver tenuto una posizione vagamente simpatetica nei confronti del referendum, la leadership del Pd ha proposto un complesso meccanismo proporzionale «spagnoleggiante » esplicitamente alternativo sia al referendum sia al sistema tedesco, per poi suggerire (per bocca del vicesegretario) una preferenza per il sistema francese (semipresidenziale con maggioritario a doppio turno), per poi infine tornare su un sistema proporzionale basato sul sistema tedesco.
Dall'altro lato, mentre la discussione sulla legge elettorale è ancora lontana dall'essere risolta, il dibattito sullo statuto del Pd ha sollevato questioni che riguardano non solo la vita interna del partito, ma il suo rapporto con gli elettori e le istituzioni. Vale quindi la pena di sottolineare due aspetti in particolare del dibattito statutario. In primo luogo, il Pd si dichiara, per quanto concerne la selezione della classe dirigente, il partito delle primarie sia per l'elezione del segretario nazionale sia per l'indicazione dei candidati ai vari livelli (sindaco, presidente di Regione, ecc.). Viene però clamorosamente escluso il metodo delle primarie per la selezione del livello più importante di tutti, quello dei candidati al Parlamento. La selezione dei legislatori del Pd, e del nucleo centrale della sua classe dirigente nazionale, verrebbe quindi lasciata alle spartizioni tra oligarchie o alle cooptazioni (magari con lista bloccata), frustrando le promesse di cambiamento del ceto politico che hanno entusiasmato tanti sostenitori del nuovo soggetto.
In secondo luogo, per quanto riguarda il ruolo del leader, il Pd intenderebbe superare il dualismo tra cariche di partito e istituzionali, candidando a premier il proprio segretario. In assenza di un sistema elettorale o istituzionale certo, però, questo obiettivo è tutt'altro che sicuro. Da un lato, una candidatura automatica potrebbe risultare troppo rigida per un sistema nel quale, come nelle ipotesi proporzionaliste oggi in discussione, si dovessero rendere essenziali con ogni probabilità delle coalizioni tra più partiti. Dall'altro lato, sarebbe in ogni caso necessario sincronizzare le elezioni del segretario- candidato-premier al ciclo elettorale e al ritmo delle legislature. Si correrebbe altrimenti il rischio di trovarsi con un premier appena eletto che deve sottoporsi alle primarie del proprio partito per rimanere in carica, oppure di trovarsi con un segretario eletto da poco che rimarrebbe in carica anche dopo una sconfitta elettorale.
Queste contraddizioni sono il frutto delle ambiguità con cui è venuto alla luce il Pd, e dei dubbi di un ceto politico ancora indeciso tra un'autentica innovazione e la conservazione con qualche ritocco di facciata. Ma sono anche il frutto di un'affrettata e sciagurata tabella di marcia, che ha sovvertito la logica successione di riforma istituzionale, riforma elettorale e statuti di partito. Come si possono infatti stabilire le regole di selezione dei candidati alle cariche di parlamentari e premier se non si conoscono i loro metodi di elezione e, più in generale, i ruoli di Parlamento e governo? Forse, per il bene del Pd e della politica italiana, sarebbe saggio che la girandola di proposte di questi ultimi tempi lasciasse il posto a una discussione approfondita sulla forma di governo della quale il Paese ha bisogno, per poi discutere dei meccanismi elettorali più adatti, e infine di quelle regole interne ai partiti che hanno una ricaduta elettorale. Si rischia in caso contrario la redazione di uno statuto che non solo delude le aspettative di tanti che continuano a credere nel progetto del Pd, ma che è anche disfunzionale al rinnovamento delle istituzioni politiche del nostro Paese.
di Filippo Andreatta
Questa settimana, Galli della Loggia, Sartori e Panebianco hanno avanzato forti dubbi sulle posizioni del Pd. Il preoccupante giudizio di autorevoli commentatori è motivato da alcuni vizi di origine. L'infelice decisione di rinunciare a partire prima delle elezioni del 2006, innanzitutto, ha impedito di usare il Pd per allargare la (risicata) vittoria elettorale del centrosinistra e di collegare la leadership del partito alla carica istituzionale di primo ministro, perpetuando il deleterio dualismo tra partiti e istituzioni. La timidezza di Veltroni durante la campagna elettorale per le primarie, che ha cercato di legittimarsi sul sostegno popolare ma anche su quello delle oligarchie, lo ha poi vincolato quando queste ultime — passata la sbornia delle primarie — hanno cercato di mettere in atto i loro tradizionali condizionamenti.
Queste difficoltà vengono al pettine su due argomenti che sono decisivi per il futuro del Pd e dell'intero sistema politico. Da un lato, la posizione del Pd sulla legge elettorale è risultata ondivaga e contraddittoria, a seconda degli equilibri interni ed esterni al partito, e ha indotto a molteplici inversioni di rotta nell'arco di poche settimane. Dopo aver tenuto una posizione vagamente simpatetica nei confronti del referendum, la leadership del Pd ha proposto un complesso meccanismo proporzionale «spagnoleggiante » esplicitamente alternativo sia al referendum sia al sistema tedesco, per poi suggerire (per bocca del vicesegretario) una preferenza per il sistema francese (semipresidenziale con maggioritario a doppio turno), per poi infine tornare su un sistema proporzionale basato sul sistema tedesco.
Dall'altro lato, mentre la discussione sulla legge elettorale è ancora lontana dall'essere risolta, il dibattito sullo statuto del Pd ha sollevato questioni che riguardano non solo la vita interna del partito, ma il suo rapporto con gli elettori e le istituzioni. Vale quindi la pena di sottolineare due aspetti in particolare del dibattito statutario. In primo luogo, il Pd si dichiara, per quanto concerne la selezione della classe dirigente, il partito delle primarie sia per l'elezione del segretario nazionale sia per l'indicazione dei candidati ai vari livelli (sindaco, presidente di Regione, ecc.). Viene però clamorosamente escluso il metodo delle primarie per la selezione del livello più importante di tutti, quello dei candidati al Parlamento. La selezione dei legislatori del Pd, e del nucleo centrale della sua classe dirigente nazionale, verrebbe quindi lasciata alle spartizioni tra oligarchie o alle cooptazioni (magari con lista bloccata), frustrando le promesse di cambiamento del ceto politico che hanno entusiasmato tanti sostenitori del nuovo soggetto.
In secondo luogo, per quanto riguarda il ruolo del leader, il Pd intenderebbe superare il dualismo tra cariche di partito e istituzionali, candidando a premier il proprio segretario. In assenza di un sistema elettorale o istituzionale certo, però, questo obiettivo è tutt'altro che sicuro. Da un lato, una candidatura automatica potrebbe risultare troppo rigida per un sistema nel quale, come nelle ipotesi proporzionaliste oggi in discussione, si dovessero rendere essenziali con ogni probabilità delle coalizioni tra più partiti. Dall'altro lato, sarebbe in ogni caso necessario sincronizzare le elezioni del segretario- candidato-premier al ciclo elettorale e al ritmo delle legislature. Si correrebbe altrimenti il rischio di trovarsi con un premier appena eletto che deve sottoporsi alle primarie del proprio partito per rimanere in carica, oppure di trovarsi con un segretario eletto da poco che rimarrebbe in carica anche dopo una sconfitta elettorale.
Queste contraddizioni sono il frutto delle ambiguità con cui è venuto alla luce il Pd, e dei dubbi di un ceto politico ancora indeciso tra un'autentica innovazione e la conservazione con qualche ritocco di facciata. Ma sono anche il frutto di un'affrettata e sciagurata tabella di marcia, che ha sovvertito la logica successione di riforma istituzionale, riforma elettorale e statuti di partito. Come si possono infatti stabilire le regole di selezione dei candidati alle cariche di parlamentari e premier se non si conoscono i loro metodi di elezione e, più in generale, i ruoli di Parlamento e governo? Forse, per il bene del Pd e della politica italiana, sarebbe saggio che la girandola di proposte di questi ultimi tempi lasciasse il posto a una discussione approfondita sulla forma di governo della quale il Paese ha bisogno, per poi discutere dei meccanismi elettorali più adatti, e infine di quelle regole interne ai partiti che hanno una ricaduta elettorale. Si rischia in caso contrario la redazione di uno statuto che non solo delude le aspettative di tanti che continuano a credere nel progetto del Pd, ma che è anche disfunzionale al rinnovamento delle istituzioni politiche del nostro Paese.
Nessun commento:
Posta un commento