5 gennaio 2008
ANDREA MANZELLA
Perché siamo una Italia «infelice», come scrivono i giornali stranieri? Perché «l´insicurezza e la sfiducia», di cui parla anche il presidente del Consiglio?
ANDREA MANZELLA
Perché siamo una Italia «infelice», come scrivono i giornali stranieri? Perché «l´insicurezza e la sfiducia», di cui parla anche il presidente del Consiglio?
Avviene perché abbiamo perso le due certezze sociali che hanno nutrito la Repubblica da quando è nata.
In primo luogo, la certezza dell´appartenenza politica.
Siamo stati di volta in volta fascisti o antifascisti, comunisti o anticomunisti, berlusconiani o antiberlusconiani. Ora, come i ghiacciai, le ultime coalizioni contrapposte (che si portavano comunque, rappreso dentro, il senso di quelle profonde fratture) si stanno sciogliendo.
Ma questo non avviene, come pensano gli ultimi mohicani legati agli alberi delle rispettive origini, perché siamo in preda ad un "trasformismo" di massa, guidato da leader reciprocamente apostati. Questo avviene perché il movimento delle idee e delle persone del mondo, la maniera dell´organizzazione del lavoro e del tempo, la significanza dei costumi e delle religioni impongono a tutto quello che si chiama «politica», una svolta, uno sforzo: per capire, per rappresentare, per indirizzare.
La politica non è più nella "politica". È altrove. E rispetto a questo "altrove" si devono regolare nuovi confini, preparare nuovi scontri, "vedere" nuovi leader, capaci di pensiero e di azione. Ma intanto siamo nell´infelicità che nasce dall´incertezza su quello che politicamente siamo...
In secondo luogo, non abbiamo più la certezza della Repubblica una e indivisibile. Avvertiamo come ferite ripetute, i segni della disgregazione territoriale. I governi di mafia "contro lo Stato", i governi localistici "fuori dallo Stato". A sessant´anni dalla Costituzione, ne sentiamo non la vecchiaia o l´inadeguatezza (come dicono i "revanscisti" costituzionali: quelli che dal disegno ideale del 1948 si sono chiamati fuori) ma la perdurante inattuazione. Sentiamo cioè che le autonomie territoriali non sono state attuate nella loro pienezza costituzionale. Non solo e non tanto nei loro poteri "prossimi" ai cittadini - da quelli sulla sicurezza a quelli fiscali - quanto nella connessione tra loro e con lo Stato centrale: in un disegno complessivo repubblicano. Fughe in avanti e fughe dalle responsabilità, un arcipelago di isole asimmetriche, la variabilità dei diritti locali, il diverso adattamento allo spazio europeo, le pulsioni secessioniste, un Parlamento bicamerale ma senza rappresentanza territoriale. Ecco l´infelicità che nasce dall´incertezza sull´unione nazionale....
È la coscienza di questa duplice incertezza di fondo che deve guidare il lavoro: per riorganizzare la politica, anche con una legge elettorale; per riordinare la Repubblica, anche con una revisione costituzionale. Nell´un caso e nell´altro è infatti fuori della realtà la rincorsa di modelli astrattamente persuasivi e «tecnologicamente avanzati»: ma la cui attuazione si scontrerebbe con la durezza di reazioni insuperabili nell´attuale emergenza.
Vediamo la questione elettorale. Dal 1994 siamo alla ricerca di una «quadra» per difficili obiettivi: il giusto rapporto eletti-elettori, la scelta elettorale preventiva di chi deve governare, l´alternanza, la stessa "governabilità". Ma ora questi obiettivi devono potersi coniugare, e magari cedere il passo, ad un bene che oggi appare, ed è, primario. Lo scopo essenziale da porsi è infatti quello di rendere adeguato il sistema politico e parlamentare alle nuove linee di consenso e di frattura che si sono aperte nella società.
L´abbiamo detto: la liquefazione in corso delle coalizioni che ingessano il parlamento, le nuove aggregazioni politiche tentate e quelle in gestazione, non obbediscono a capricci o improvvisazioni di leader solitari. Certo, nei modi c´è anche questa forzatura di procedure che provoca distorsioni di immagine.
Ma, al di là delle spallate verticistiche, vi è autentico lo sforzo di interpretare una geografia politica cambiata nelle dimensioni e nei confini. Uno sforzo «costituente» che disegni il terreno per una lotta politica appropriata al mutamento delle cose.Se questo è il bene pubblico principale, la sola irrinunciabile preoccupazione della nuova legge elettorale dovrebbe essere quella di evitare la polverizzazione della rappresentanza, la tribalizzazione del Parlamento. Ma, sbarrata la soglia a chi rappresenta se stesso, sarebbe un gravissimo errore pretendere di proiettare nel futuro lo stesso forzato meccanismo di formazione che ha dato vita alle colazioni esistenti. Si impedirebbe, così, con artificiose tecniche elettorali, la scomposizione e la ricomposizione del nostro sistema politico su basi dettate dai movimenti reali e dalle persuasioni popolari che vi corrispondono.Da questo punto di vista, il referendum (pur meritorio: per coraggio di promotori e per il fine, già raggiunto, di dimostrare la necessità del cambiamento) appare ancorato alla logica meccanica che porta a coalizioni giustamente definite "coatte": senza più corrispondenza con la società politica effettiva. E perciò il suo nudo risultato sarebbe non innovativo ma più che conservatore.Vediamo la questione costituzionale. Per vincere l´altra e, forse, più grave incertezza causata da una Repubblica "lontana" dal territorio, vi è la necessità di incardinare il suo funzionamento intorno al principio costituzionale di autonomia.
Questo include in sé l´idea di coordinamento nazionale: e questo legamento deve essere visibile in Parlamento, come rappresentanza di città e regioni, come capacità di decidere insieme la conciliazione dei loro interessi. Dare voce alla "territorialità" nel centro della Repubblica non è dunque un optional: è una necessità.
Di fronte al deperimento dell´unità territoriale della Repubblica, solo l´istituzione di un Senato "federativo" può frenare la diaspora: come luogo di assorbimento e di razionalizzazione delle cento spinte centrifughe. Non è vero che per una tale - puntuale - riforma costituzionale occorrono tempi lunghi: con il consenso, basterebbero meno di nove mesi. Né è decente dire che l´opposizione dei senatori in carica appare insuperabile: vi è un patriottismo istituzionale che deve e può prevalere a Palazzo Madama. Magari non sarà precisamente la riforma su cui vi è già avanzato progetto alla Camera dei deputati: ma la prossima legislatura, per vicina che sia, deve poter contare su un bicameralismo che rappresenti veramente, e tenga insieme, le molte e varie autonomie territoriali. E il governo in tutto questo? Il governo deve essere "neutrale" sia sul versante elettorale sia su quello della riforma costituzionale del sistema parlamentare. Lo può essere benissimo l´attuale governo, se supera evidenti difficoltà numeriche più che politiche. Il bilancio esposto nei giorni scorsi dal presidente del Consiglio è dignitoso, onesto, serio. E chiari i propositi. Sbaglia perciò certamente chi fa del governo, per vendetta trasversale, lo «scudo umano» che dovrebbe impedire leggi elettorali con un minimo di ragionevolezza. Ma il ruolo di neutralità potrebbe, per necessità, essere svolto anche da un altro governo che si assuma la responsabilità di assicurare i termini temporali del lavoro "costituente" da portare a compimento. E certo sbaglia chi sostiene che in una Repubblica parlamentare quale è rimasta la nostra (pur dopo la svolta maggioritaria del 1994) questa possibilità non esiste. Nell´un caso e nell´altro, gli stranieri ci guardano: testimoni compassionevoli della nostra attuale "infelicità".
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