giovedì 24 luglio 2008

Ancora un importante contributo di Massimo Paoli


L’immagine della forza e il senso della dinamica reale di un sistema economico possono facilmente essere estratti dall’analisi del comportamento di questi semplici indicatori: produzione, occupazione, salari e produttività.
A partire dal 1995-96, preoccupata degli alti tassi di disoccupazione, l’Europa prova a flessibilizzare i mercati dei lavori con il Libro Bianco di Delors e la costituzione, dopo il trattato di Amsterdam 1996, del Comitato Permanente per l’Occupazione ed il Mercato del Lavoro cui veniva assegnato l’obiettivo di coordinare le politiche dei mercati dei lavori dei paesi membri, poi Lisbona 2000 e così via.
L’Italia aderisce allo spirito delle politiche europee, ma succede qualcosa di complesso e di stupefacente, il paese che ha sempre fatto della sua capacità dinamica, nella buona come nella cattiva sorte, la sua arma più affilata si ferma.
La produzione italiana tocca il suo picco nel 1995 con un quasi +6%, poi vivacchia ad una media del +3% medio annuo fino al 2001, per piombare nell’intorno del +1% medio annuo fino al 2006.
L’occupazione sembra rianimarsi, nel 1995 è 0%, poi si stabilizza intorno al +1,5% medio annuo fino al 2001, per poi cadere sotto il +1% medio annuo fino al 2006.
Nel periodo 1995-2006 le retribuzioni “reali” degli occupati italiani crescono di un ridicolo +0,1% medio annuo contro una media europea, non esaltante, ma dieci volte più dinamica e pari al +1%. I salari reali crescono del +1% medio annuo anche in Germania, del +1,3% in Francia, crescono di ben diciassette volte il dato italiano, +1,7% medio annuo, in Portogallo, ventitre volte con il +2,3% in Gran Bretagna e di ben trenta volte con il +3,0% medio annuo in Grecia. Insomma in questo decennio, pur avendo avuto una composizione dei turnover occupazionali simile alla nostra, i salari francesi e britannici sono cresciuti rispettivamente del 15% e del 29%, mentre quelli italiani non arrivano al 3%.
La produttività europea ha resistito ad un +1,5% medio annuo nel periodo 1995-2000 scendendo all’1% medio annuo nel periodo 2000-2006.
La crescita della produttività oraria (cioè il PIL reale per occupato) dovrebbe aumentare poco più dell’1% nella zona euro sia nel 2007 che nel 2008, per raggiungere sperabilmente l’1,3% nel 2009 (occorre sottolineare, però, che era stata dell’1,5% nel 2006).L’Italia, con una crescita della produttività del +0,2% nel 2006 a fronte di una media del +1,5% nell’UE a 15, è evidentemente messa proprio male. È pur vero che c’è stato un miglioramento rispetto al -0,5% medio annuo del periodo 2001-2005 e che si prevede un aumento di produttività dello 0,8% nel 2008 e dello 0,9% nel 2009, ma comunque il prossimo anno l’Italia potrebbe essere ancora una volta il paese della zona euro che registrerà la crescita della produttività più debole.
Sulla base di questi dati vengono spontanee alcune riflessioni, magari non sistematiche e forse affrettate, ma sentite.
I mass media televisivi si lamentano ogni giorno che la domanda aggregata interna non regge e i consumi calano, quasi fosse colpa dei consumatori, ma dove li prendono i soldi, se i salari non crescono?
La flessibilizzazione-precarizzazione della legge 30 è fallita. Fa più danni precarizzando di quanto non costituisca vantaggio per le imprese flessibilizzando l’entrata, va rivista, anche se forse non cancellata.
Pensare che i bassi salari diano competitività alle imprese è da sempliciotti, perché comunque per quanto bassi sono sempre alcune decine di volte più alti di quelli dei paesi emergenti nostri diretti competitori, l’unico obiettivo che si raggiunge in questo caso è appunto il crollo dei consumi. E se i sistemi capitalistici possono immaginare anche di stare senza lavoratori, senza capitale e non so cos’altro, di certo non sopravvivono un minuto senza consumatori.
La produttività è del lavoro in quanto associato al capitale. Se mi danno da scavare una buca con una pala (investimento in capitale 10 euro) la mia produttività è qualche chilo al minuto, se mi danno una macchina movimento terra tipo Caterpillar o Komatsu (investimento in capitale di 1 milione di euro), la mia produttività è di qualche tonnellata al minuto. Non è più possibile di parlare di produttività del lavoro senza parlare di che tipo di profilo degli investimenti in tecnologia gli imprenditori sono disposti a fare. Infine bisogna ricordare sempre che ci sono due produttività, una interna alle imprese (sulla quale abbiamo detto: introdurre più tecnologia), l’altra esterna fatta di assetti pubblici e scelte politiche, apparati e infrastrutture non solo logistiche. Su quest’ultimo versante siamo all’anno zero, o è rivoluzione, a partire dalla politica, o come un gigantesco macigno, il pubblico incapace di riformarsi trascinerà con sé tutto quanto a fondo (ora arriva anche il “federalismo fiscale”, ci sarà da vederne delle belle).

1 commento:

Ettore ha detto...

Prendere per assoluta ogni conseguenza del motore “A” o del motore “B” ed assumerla al posto del motore che per sua definizione è parte di un insieme non ha mai portato da nessuna parte. Se è accaduto è stato per la concomitanza casuale di fattori accidentali. È quindi il come ed il perché si progetta e si definiscono gli obiettivi - di breve e medio termine - che ne determina l’importanza strategica e la durata d’impiego. Ineludibili i fattori “persona” ed “insieme di persone”; il fattore “culture”, rilevate in singoli, gruppi ampi o ristretti. Momenti come ‘flessibilità’ (troppo spesso confusa scientemente con precarietà), strumentazione degli scambi, organizzazione del lavoro o dei sistemi di produzione e finanziari sono di per sé ‘neutri’, ma non lo sono coloro che ne impostano l’uso e li utilizzano. Essi si esprimono sulla base delle ‘culture’ di cui sono espressione e che stanno quotidianamente formando. La classe dirigente del nostro Paese (politici, rappresentanti dei gruppi sociali, attori dei sistemi formativi, comunicatori) - con forte accentuazione negli ultimi 30-40 anni - si sono lasciati trascinare dall’autorefrenzialità e dagli egoismi personali o di gruppo ed hanno indotto la graduale immobilità per mancanza di idee e progetti, abbandonando a sé stesso il bene comune e lasciando spazio a chi alzava più la voce o la propria capacità di prevaricare (legalmente o meno) ed accumulare. Tale debolezza di idee ha fatto assumere strumenti e valori maturati in altri contesti come propri. Certo, bisogna confrontarci con quanto sta maturando globalmente, ma bisogna anche trarne le conseguenze e procedere ad adeguamenti o nuove progettazioni in tempi e modi credibili. A mio parere, è vero per l’economia, per l’organizzazione del lavoro, per ogni atto di sistema nel quale siamo coinvolti. Ancora una volta quanto afferma il prof. Paoli ne è la conferma. - Questa volta a livello progettuale d’insieme come in altri momenti lo ha affermato per l’area ristretta nella quale operiamo: Livorno. Proprio per questo sono convinto che, mentre si continua con la normale attività (buona o meno buona che sia), è urgente alzare il tiro ad ogni livello e spingere per progettazioni credibili non ‘ideologiche’, che abbiano il fattore UOMO come punto di riferimento non eludibile. Basta vedere le conseguenze di quelle ‘vecchie’ o delle cosiddette “nuove” (quella di ‘mercato’ per esempio). Grazie, Paoli, per la continua pressione che fai su ciascuno di noi. Non dubito che converrai con me che è giunto il tempo che anche il nostro territorio (se mai non ne è stato afflitto) e quello nazionale scaccino il nanismo da cui sono affetti. Si può guarire, anche senza cure genetiche!
Ettore Bettinetti