La Repubblica del 27 settembre 2007,
di Ezio Mauro
C'è qualcosa di impopolare e tuttavia necessario da dire ancora sull'assalto dell'antipolitica al cielo italiano di questo sgangherato 2007. Niente di ciò che sta avvenendo sarebbe possibile se sotto la crosta sottile di questa crisi dei partiti che diventa crisi di rappresentanza, si allarga alle istituzioni, corrode il discorso pubblico, non ci fosse un'altra crisi ben più profonda che continuiamo a ignorare perché non la vogliamo vedere. E' la decadenza del Paese, l'indebolimento della coscienza di sé e della percezione esteriore, la perdita di peso specifico e di identità culturale. Ciò che dà forma contemporanea ad un'idea dell'Italia, la custodisce aggiornandola nel passaggio delle generazioni, la testimonia nel mondo, garantendo una sostanza identitaria agli alti e bassi della politica, ai cicli dell'economia, all'autonoma rappresentazione del Paese che la cultura fa nel cinema, nella letteratura, nel teatro, nella musica, nei media o in televisione.
Se questa idea che il Paese ha di se stesso, e che il mondo ha di noi, non si fosse fiaccata fino a confondersi e smarrirsi, il sussulto di ribellione ai costi crescenti della politica, alla lottizzazione di ogni spazio pubblico con l'umiliazione del merito, all'esibizione pubblica dei privilegi avrebbe preso la strada di una spinta forzata al cambiamento e alla riforma. Non di un disincanto che si trasforma in disaffezione democratica mentre la protesta diventa una sorta di secessione dalla vita pubblica: un passaggio in una dimensione parallela - ecco il punto - dove l'idea stessa di cambiamento cede alla ribellione, e alla cattiva politica si risponde cancellando la politica e abrogando i partiti. Come se cambiare l'Italia fosse impossibile. O, peggio, inutile.
Un Paese che dedica quattro serate tv a miss Italia, riunisce una trentina di persone in un vertice di maggioranza attorno a Prodi, inventa un cartoon politico come la Brambilla per esorcizzare il problema politico della successione a Berlusconi, vede restare tranquillamente al suo posto il presidente di Mediobanca rinviato a giudizio con altri 34 per il crac Cirio, forma due partiti anche per discutere l'eredità Pavarotti e dà ogni sera al Papa uno spazio sicuro nel suo maggior telegiornale, ha la proiezione internazionale che questo triste perimetro autunnale disegna. Un'Italia in forte perdita di velocità, dove l'unico leader capace di innovazione è un manager straniero come Sergio Marchionne mentre il ceto politico è l'elemento più statico, immobile, in un sistema che perde peso e ruolo in Europa e nel mondo. Perché la moda, il Chianti e le Langhe non possono da soli sostenere e rinnovare la tradizione e l'ambizione di un Paese che non può essere soltanto l'atelier dell'Occidente, o la sua casa di riposo.
Ma se tutto questo è vero, e purtroppo lo è, l'antipolitica è soltanto una spia - e parziale - dell'indebolimento di un sentimento pubblico e di uno spirito nazionale, qualcosa che va molto al di là delle dimensione strettamente politica e istituzionale. È quel che potremmo chiamare il senso di una perdita progressiva di cittadinanza in un Paese che perde intanto ogni piattaforma identitaria comune, ogni appartenenza sicura, qualsiasi cultura di riferimento. Come può questo Paese non perdere sicurezza, coscienza, peso, capacità di rappresentare se stesso e di valorizzarsi, innovando e modernizzando?
Il "V-day", a mio giudizio, è una prova di questo impoverimento. Solitudini politiche sparse, delusioni individuali, secessioni personali si riuniscono in uno show, come se cercassero "soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche". È quella che Zygmunt Bauman chiama la comunità del talk-show, con gli idoli che sostituiscono i leader, mentre il potere dei numeri - la folla - consegna loro il carisma, capace a sua volta di trasformare gli spettatori in seguaci. Attorno, la celebrità sostituisce la fama, la notorietà vale più della stima, l'evento prende il posto della politica e trasforma i cittadini da attori a spettatori: pubblico.
Ma come si fa a non vedere che in questa atrofia del discorso politico, che cortocircuita se stesso trasformando il "vaffanculo" nella massima espressione di impegno civile dell'Italia 2007, c'è la decadenza di ogni autorità, il venir meno di ciò che si chiamava "l'onore sociale" dei servitori dello Stato, il logoramento vasto del potere nel suo senso più generale: il potere in forza della legalità, in forza "della disposizione all'obbedienza", nell'adempimento di doveri conformi a una regola.
Se è questo che è saltato, il vuoto allora riguarda tutti, non soltanto la classe politica. È l'establishment del Paese nel suo insieme che invece di sentirsi assolto dal pubblico processo al capro espiatorio politico, deve rendere conto di questo deficit complessivo di rappresentanza, di questo impoverimento del sistema-Italia, di questa secessione strisciante, dello smarrimento non solo del senso dello Stato ma anche di uno spirito repubblicano comune e condiviso. Troppo comodo partecipare al valzer dell'antipolitica dagli spalti di un capitalismo asfittico nelle sue scatole cinesi, di una finanza che cerca il comando senza il rischio, di un'industria che dello Stato conosce solo gli aiuti e mai le prerogative.
Quando la crisi è di sistema e l'indebolimento del Paese è l'unico risultato visibile ad occhio nudo, davanti alla secessione strisciante di troppi cittadini dalla cosa pubblica bisognerebbe che l'establishment italiano evitasse di contare in anticipo le monetine da lanciare contro la politica, aspettando la supplenza e sognando l'eredità. Meglio chiedersi, finché c'è tempo, per chi suona la campana.
giovedì 27 settembre 2007
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