21 novembre 2008
Paolo Franchi
Quando, un paio di anni fa, la nave del Pd prese finalmente il largo, si disse che stava per nascere non un nuovo partito, ma un partito nuovo. Non voleva essere soltanto un gioco di parole. Di nuovi partiti, dopo il collasso della Prima Repubblica, ne erano nati e morti un'infinità: nessuno avrebbe potuto entusiasmarsi all'idea di metterne su un altro, seppure più grosso, nella speranza che le debolezze di Ds e Margherita, sommate, dessero luogo a una forza. Porre mano alla costruzione del partito nuovo del centrosinistra, invece, rivelava, o avrebbe dovuto rivelare, ben altre ambizioni. Magari di natura diversa. Quelli che avevano una qualche dimestichezza con il Pci potevano cogliervi, volendo, anche un richiamo al miracolo politico di Togliatti au retour de Moscou (in fondo l'unica rifondazione che il comunismo italiano, trasformandosi da setta di rivoluzionari di professione in partito di massa fedele all'Urss, certo, ma anche radicato in tutte le pieghe della società, abbia mai conosciuto), e insomma una trasfigurazione, e al tempo stesso un inveramento, della loro storia: veniamo da lontano, e andiamo lontano.
Ma di Togliatti in giro non ce n'erano, e nel costituendo Pd potevano al massimo inverarsi e trasfigurarsi, come in effetti è accaduto, il Pds e i Ds, che del Pci avevano ereditato quasi tutti i vizi ma quasi nessuna virtù. Quelli che con questa storia non avevano legami, o li avevano più nettamente recisi, immaginavano qualcosa di diverso: un partito come in Italia non c'era mai stato, la casa in cui tutti i riformismi e tutti i riformisti avrebbero potuto vivere da liberi e da eguali, una grande forza post ideologica a vocazione maggioritaria in grado di candidarsi a governare in una democrazia bipolare, e anzi tendenzialmente bipartitica. Ma per gettare le basi di un partito così sarebbe servito un big bang, o almeno un vigoroso rimescolamento delle carte: non se ne è vista traccia, come per primi hanno dovuto constatare (a modo loro, e comunque in solitudine) Marco Pannella e i radicali.
I risultati si vedono. Nessuno, nemmeno quelli che sul nascente Pd erano stati critici e comunque dubbiosi, immaginava che, in un così breve volgere di tempo, la realtà si sarebbe rivelata peggiore delle previsioni più pessimistiche. Sette mesi dopo la sconfitta elettorale, fatica oltremisura a prendere corpo non solo la poesia del partito nuovo, ma anche la prosa del nuovo partito. Magari perché un partito, vecchio nuovo o seminuovo che sia, è tante cose, nobili e meno nobili. Ma prima di tutto è una comunità di valori e, perché no di interessi, un «grumo di vissuto», direbbe Pietro Ingrao, che non sta insieme se non c'è un mutuo riconoscimento di buona fede e di lealtà. Una comunità in cui si discute, ci si divide e, nel caso, ci si accapiglia, ma avendo sempre chiaro che c'è un limite oltre il quale l'unica prospettiva diventa la scissione o, peggio ancora, l'implosione: e cioè, parafrasando Marx, la comune rovina delle parti in lotta. È tutto da stabilire se il Pd abbia queste caratteristiche. Anzi, a dire il vero sembrerebbe proprio di no. E sembrerebbe pure che quel limite, se non è già stato superato, sia sul punto di esserlo. Saremmo felici di sbagliare.
Ma già ora non ci si chiede tanto quale sarà il futuro del Partito democratico, quanto piuttosto se un futuro il Partito democratico lo abbia, o se invece siamo già all'inizio di una fine annunciata. Come se al Pd stesse capitando qualcosa di simile a quello che capitò, quaranta e passa anni fa, al Partito socialista unificato, con la differenza che allora, nel momento della separazione, fu comunque possibile ai contendenti, peggio che ammaccati, rientrare nelle vecchie case, il Psi e il Psdi, mentre stavolta non ci sarebbero tetti, seppure malcerti, sotto cui trovare riparo nella bufera. O stesse succedendo qualcosa di simile a quello che potrebbe succedere ai socialisti francesi, paralizzati dai contrasti insanabili, di potere e di linea, tra prime donne che non riescono a prevalere l'una sull'altra, ma a bloccarsi reciprocamente sì. Esagerazioni, forzature, indebite drammatizzazioni? Può darsi. Ma a chi trovasse ingeneroso porre la questione in questi termini, basterebbe suggerire di scorrere le cronache di questi giorni, con il loro ampio corredo di reciproci sospetti sempre più velenosi e di reciproche accuse (dall'insussistenza politica all'intelligenza con il nemico) sempre più infamanti.
Ci si può esercitare nel tentativo di stabilire chi porti le responsabilità maggiori. Molto probabilmente, con tutto quello, e non è davvero poco, che gli si può rimproverare, non è il segretario. Ma non è questo il punto. Il punto è se il tutto il Pd è in grado di provarsi a stabilire subito, non domani o dopodomani, come e perché si è andato a cacciare in una situazione come questa, che non si lascia spiegare soltanto con una batosta elettorale prevedibile ma mai davvero indagata, e che la gente del Circo Massimo non merita; e se è ancora possibile uscirne, e per quali vie. Il punto è, in altri termini, se stiamo parlando di un organismo malato sì, ma vitale. In caso contrario, sarebbero guai seri. Per il Pd, si capisce. Ma anche per la democrazia italiana. Che, come tutte le democrazie, di un'opposizione degna di questo nome ha un bisogno vitale. Specie in tempi calamitosi come quelli che si avvicinano.
Paolo Franchi
Quando, un paio di anni fa, la nave del Pd prese finalmente il largo, si disse che stava per nascere non un nuovo partito, ma un partito nuovo. Non voleva essere soltanto un gioco di parole. Di nuovi partiti, dopo il collasso della Prima Repubblica, ne erano nati e morti un'infinità: nessuno avrebbe potuto entusiasmarsi all'idea di metterne su un altro, seppure più grosso, nella speranza che le debolezze di Ds e Margherita, sommate, dessero luogo a una forza. Porre mano alla costruzione del partito nuovo del centrosinistra, invece, rivelava, o avrebbe dovuto rivelare, ben altre ambizioni. Magari di natura diversa. Quelli che avevano una qualche dimestichezza con il Pci potevano cogliervi, volendo, anche un richiamo al miracolo politico di Togliatti au retour de Moscou (in fondo l'unica rifondazione che il comunismo italiano, trasformandosi da setta di rivoluzionari di professione in partito di massa fedele all'Urss, certo, ma anche radicato in tutte le pieghe della società, abbia mai conosciuto), e insomma una trasfigurazione, e al tempo stesso un inveramento, della loro storia: veniamo da lontano, e andiamo lontano.
Ma di Togliatti in giro non ce n'erano, e nel costituendo Pd potevano al massimo inverarsi e trasfigurarsi, come in effetti è accaduto, il Pds e i Ds, che del Pci avevano ereditato quasi tutti i vizi ma quasi nessuna virtù. Quelli che con questa storia non avevano legami, o li avevano più nettamente recisi, immaginavano qualcosa di diverso: un partito come in Italia non c'era mai stato, la casa in cui tutti i riformismi e tutti i riformisti avrebbero potuto vivere da liberi e da eguali, una grande forza post ideologica a vocazione maggioritaria in grado di candidarsi a governare in una democrazia bipolare, e anzi tendenzialmente bipartitica. Ma per gettare le basi di un partito così sarebbe servito un big bang, o almeno un vigoroso rimescolamento delle carte: non se ne è vista traccia, come per primi hanno dovuto constatare (a modo loro, e comunque in solitudine) Marco Pannella e i radicali.
I risultati si vedono. Nessuno, nemmeno quelli che sul nascente Pd erano stati critici e comunque dubbiosi, immaginava che, in un così breve volgere di tempo, la realtà si sarebbe rivelata peggiore delle previsioni più pessimistiche. Sette mesi dopo la sconfitta elettorale, fatica oltremisura a prendere corpo non solo la poesia del partito nuovo, ma anche la prosa del nuovo partito. Magari perché un partito, vecchio nuovo o seminuovo che sia, è tante cose, nobili e meno nobili. Ma prima di tutto è una comunità di valori e, perché no di interessi, un «grumo di vissuto», direbbe Pietro Ingrao, che non sta insieme se non c'è un mutuo riconoscimento di buona fede e di lealtà. Una comunità in cui si discute, ci si divide e, nel caso, ci si accapiglia, ma avendo sempre chiaro che c'è un limite oltre il quale l'unica prospettiva diventa la scissione o, peggio ancora, l'implosione: e cioè, parafrasando Marx, la comune rovina delle parti in lotta. È tutto da stabilire se il Pd abbia queste caratteristiche. Anzi, a dire il vero sembrerebbe proprio di no. E sembrerebbe pure che quel limite, se non è già stato superato, sia sul punto di esserlo. Saremmo felici di sbagliare.
Ma già ora non ci si chiede tanto quale sarà il futuro del Partito democratico, quanto piuttosto se un futuro il Partito democratico lo abbia, o se invece siamo già all'inizio di una fine annunciata. Come se al Pd stesse capitando qualcosa di simile a quello che capitò, quaranta e passa anni fa, al Partito socialista unificato, con la differenza che allora, nel momento della separazione, fu comunque possibile ai contendenti, peggio che ammaccati, rientrare nelle vecchie case, il Psi e il Psdi, mentre stavolta non ci sarebbero tetti, seppure malcerti, sotto cui trovare riparo nella bufera. O stesse succedendo qualcosa di simile a quello che potrebbe succedere ai socialisti francesi, paralizzati dai contrasti insanabili, di potere e di linea, tra prime donne che non riescono a prevalere l'una sull'altra, ma a bloccarsi reciprocamente sì. Esagerazioni, forzature, indebite drammatizzazioni? Può darsi. Ma a chi trovasse ingeneroso porre la questione in questi termini, basterebbe suggerire di scorrere le cronache di questi giorni, con il loro ampio corredo di reciproci sospetti sempre più velenosi e di reciproche accuse (dall'insussistenza politica all'intelligenza con il nemico) sempre più infamanti.
Ci si può esercitare nel tentativo di stabilire chi porti le responsabilità maggiori. Molto probabilmente, con tutto quello, e non è davvero poco, che gli si può rimproverare, non è il segretario. Ma non è questo il punto. Il punto è se il tutto il Pd è in grado di provarsi a stabilire subito, non domani o dopodomani, come e perché si è andato a cacciare in una situazione come questa, che non si lascia spiegare soltanto con una batosta elettorale prevedibile ma mai davvero indagata, e che la gente del Circo Massimo non merita; e se è ancora possibile uscirne, e per quali vie. Il punto è, in altri termini, se stiamo parlando di un organismo malato sì, ma vitale. In caso contrario, sarebbero guai seri. Per il Pd, si capisce. Ma anche per la democrazia italiana. Che, come tutte le democrazie, di un'opposizione degna di questo nome ha un bisogno vitale. Specie in tempi calamitosi come quelli che si avvicinano.
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