lunedì 31 marzo 2008

Parole, parole, parole.....

Accountability
Il dizionario traduce il termine inglese «accountability» con «responsabilità».
Nella cooperazione allo sviluppo, il termine è utilizzato ogni qualvolta si ha a che fare con l’«accountable», in altre parole, il responsabile, colui che dirige un progetto, un programma o una misura d’intervento. E dunque, tale «accountable» può essere un governo o un ministero, così come la Banca mondiale, la DSC, un manager o il singolo responsabile di un progetto. La DSC, ad esempio, per quanto concerne la lotta alla povertà, è da considerarsi «accountable» nei confronti del parlamento. Essa è tenuta a dichiarare in che modo viene eseguito l’incarico, come viene impiegato il denaro, in quale misura sono stati raggiunti gli obiettivi e quali aspettative sono state soddisfatte. Accountability è, in fondo, l’esatto contrario di arbitrio, essa presuppone trasparenza, garanzie, assunzione di responsabilità e rendiconto sulle attività svolte, nonché l’impegno a dichiararsi. Da ciò consegue, per tutti coloro che partecipano al progetto, la trasparenza, la condivisione e la capacità di fornire prestazioni.
Da "Un solo mondo", N. 3/00
Spero che la “vocazione maggioritaria” e il coraggio di decidere di cui parla spesso Walter Veltroni si trasformino prima di tutto in un'assunzione di responsabilità da parte di persone fisiche; che al coraggio di decidere che chiediamo al nostro partito di avere si abbini la responsabilità individuale di chi prende le decisioni.
Non ci saranno mai né meritocrazia né ricambio generazionale in Italia fino a quando quelli che prendono decisioni sbagliate, tecniche o politiche che siano, non cominceranno a lasciare spazio ad altri più abili o semplicemente più capaci di proporre le soluzioni necessarie per il progresso del paese
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Ivan Scalfarotto

mercoledì 26 marzo 2008

Quello che resta: l'importanza della memoria

Ho ricevuto oggi dal Cantiere per la democrazia, da Rossano Pazzagli, questo brano di Gramsci lo copio e incollo.
Restare vuol dire anche insistere e resistere, difendere, nella memoria, il ricordo di un'esistenza, resistere alla tragicità dell'oblio che cancella i ricordi e svaluta la storia, la cultura, le emozioni provate.
E' forse il pezzo che più conosciamo, ma lo metto lo stesso, perchè è bellissimo e perchè fra le cose che Gramsci ci ha lasciato c’è l’amore per la giustizia.
Parole note, da rileggere ogni tanto, pensieri che vivono ancora:

Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L'indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L'indifferenza è il peso morto della storia. L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E' la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l'intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perchè la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La massa ignora, perchè non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch'io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perchè mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.
Antonio Gramsci, 11 febbraio 1917
L'indifferenza, insomma, ha un ruolo ben più incisivo e pericoloso di quanto si possa immaginare, è il braccio della conservazione, il piedistallo del potere, il terreno fertile delle ingiustizie.
Per dirla con De Andrè, “per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti” ( Canzone del maggio ).
Daniela Miele

domenica 23 marzo 2008

IL PARLAMENTO CHE CI ASPETTA

La Repubblica
Domenica, 23 Marzo 2008
ANDREA MANZELLA
Quale parlamento ci aspetta? Ora la preoccupazione dominante (e comprensibile) è quella numerica. Chi vincerà, chi perderà? La risposta ce l´hanno spiegata in tanti. Ed è tanto semplice da far paura. A ballare non sono più in due, come nel 2006, ma in quadriglia (Democratici, Popolo delle Libertà, Arcobaleno, Udc). E ora che si mena una danza a quattro, secondo la diversissima musica politica di ciascuna regione, i risultati al Senato sono imprevedibili e incontrollabili.La "lotteria" del 2006 è diventata un flipper. Se una (o tutte e due) delle formazioni "minori" toccano la sbarra dell´8 per cento in una regione, non si sa dove rimbalzerà il pallino: e quali potranno essere le sue conseguenze per le due liste maggiori. Certo, faranno una "corsa all´indietro" (rispetto al 2006). Ma quale delle due, sia pure rinculando, riuscirà comunque ad avere, con il premio, maggiori seggi? E, alla fine, quale sarà la somma dei più e dei meno nelle regioni per calcolare chi ha vinto al Senato? Questa incertezza del Senato contagerà anche la Camera. Certo, alla Camera è tutto più semplice: chi prende un solo voto in più, ha larga maggioranza. Ma se questa maggioranza non ne avrà una corrispondente del Senato, non si potrà governare.Quel che si era visto, che già si sapeva, è divenuto più complicato. E davvero, nelle condizioni del Paese, non c´era alcuna ragione logica perché, con le elezioni del 13 aprile si dovesse rischiare, peggiorato, lo stesso disastro della "legislatura di venti mesi" appena chiusa. Non c´era alcuna ragione logica perché i parlamentari del centro della destra andassero al suicidio politico, affondando il tentativo Marini di un "governo per la riforma elettorale". Ma non c´era neppure alcuna ragione logica, nella vecchia storiella tropicale, perché lo scorpione, a metà del guado, pungesse mortalmente il caimano, che gli stava dando un "passaggio" per attraversare il fiume...Incerti i numeri del nuovo Parlamento, migliorerà però la qualità delle persone? Può darsi. Ma per ora il meccanismo elettorale, che il centro-destra ha rifiutato di cambiare, sembra aver accentuato e non attenuato i suoi effetti perversi. Il sistema delle liste bloccate per grandissime circoscrizioni ha concentrato il potere di decisione nelle mani di cinque-sei persone, dalla estrema destra all´estrema sinistra. E, secondo la lezione dei grandi cinici, il potere è inutile se non se ne abusa... L´impressione generale è dunque che il rapporto territoriale eletto-elettori si sia quasi del tutto sfilacciato, salvo per le "code di lista", fatte di candidati a morte. E che le "nomine" parlamentari siano state ripartite quindi semplicemente sulla base della "rendita storica" delle circoscrizioni. Si dubita che queste nomine "ottriate dall´alto" possano migliorare la qualità del personale politico. La sensazione è che il modello di funzionamento degli ultimi parlamenti abbia sagomato le scelte elettorali. E che dunque abbia prevalso l´ideal-tipo della fedeltà del parlamentare-premi-bottone: reversibile, e sostituibile. Come nelle ultime legislature, si è guardato soprattutto al lavoro di Assemblea, quasi sempre tribunizio e declaratorio. Senza pensare che, forse, nel prossimo parlamento ritornerà essenziale il lavoro nelle Commissioni parlamentari. Dove la capacità avvocatesca vale poco: e contano competenza specifica e attitudine al confronto ragionato ed esperienza (la seniority dei grandi parlamenti, che non significa affatto età avanzata). Un parlamento così, per fare che? Subito la modifica dei regolamenti parlamentari, "subito santo": quasi tutti proclamano. Ma non dipende dai regolamenti il fatto che ci siano due Camere che possono essere a composizione così diversa che l´una dia la fiducia al governo e l´altra la neghi (è accaduto appena ieri, il 24 gennaio). Non dipende dai regolamenti il fatto che il Senato che dovrebbe avere una "base regionale" – di rappresentatività territoriale (a ben capire la Costituzione) – sia in realtà del tutto distaccato dal sistema delle autonomie. Non dipende dai regolamenti il fatto che le grandi leggi di organizzazione dello Stato – la legge Finanziaria, la legge comunitaria, la legge sulla presidenza del consiglio e sul numero dei ministeri, la legge sulle Autorità indipendenti, le leggi sulla pubblica amministrazione – siano tutte in grave crisi di rendimento e oggetto di laceranti interrogativi: così come i sistemi da esse creati. È evidente allora che un decisivo ricorso all´autonomia regolamentare può venire "dopo" quegli essenziali cantieri riformisti che si devono aprire (e chiudere) "prima". L´autonomia parlamentare deve avere un indirizzo per poter dare senso ed efficacia alle riforme interne alle Camere. Certo, le Camere appena riunite, possono decidere che la realtà dei gruppi parlamentari corrisponda sempre alla realtà che si è proposta agli elettori. E che finisca subito lo sconcio (e le spese) della moltiplicazione dei gruppi e dei giornaletti germinati da una stessa lista elettorale. Nessuno può illudersi, però, che sia questa la riforma che ci cambierà la vita. Né cambierà la vita del Parlamento: se questo non sarà prima capace di fare le riforme essenziali di tipo costituzionale e legislativo. Il parlamento che ci aspetta sarà dunque più paralizzato, un po´ più oligarchico, un po´ più scarso di quello che ha vissuto la «breve vita infelice» della XV legislatura? Può essere. Ma il bello della democrazia parlamentare è che c´è anche, piena, l´altra possibilità: se appena si alza lo sguardo. E cioè che lo stesso dramma politico della brusca cesura, l´accelerazione di ricomposizioni a partito, il senso diffuso di ultimo treno, il riconoscimento di errori la cui riparazione non si può più rinviare: tutto questo costituisce un cocktail perché questa volta si apra, vero e senza trucchi, il tempo delle regole.È questa possibilità che ci motiverà a votare, il 13 aprile, per il parlamento. Grande è, dopo 15 anni, il disordine repubblicano. Ma solo in parlamento, comunque eletto, si potrà ritrovare il filo della "democrazia governante". In un Paese che ora – secondo le parole di un gran vecchio della Repubblica – «è quello che ha oggi il tasso più basso di democrazia di tutto l´Occidente».

sabato 15 marzo 2008

A proposito di Pubblica Amministrazione al servizio del cittadino!

Il Corriere della sera
14 Marzo 2008

Piero Ostellino
Le parole d'ordine del Pdl e del Pd si assomigliano perché frutto dei sondaggi. Si interroga la «gente »; poi i partiti adottano i temi più gettonati. E' il trionfo del marketing sulla politica. Pdl e Pd non sottopongono alla «gente» il problema del potere pubblico e dei suoi limiti perché non è un prodotto elettoralmente «commerciabile ». Ma, così, perdono di vista la differenza fra la società aperta e una chiusa. Lo Stato non c'è dove dovrebbe esserci — garantire sicurezza, legalità, giustizia, istruzione — e c'è dove non deve, producendo illegalità, divieti, vincoli, sanzioni illegittime.
Assegnare allo Stato una finalità etica (per esempio la giustizia sociale) accresce il potere della classe politica. Lo Stato liberale non è produttore di un'«etica pubblica», bensì di un quadro giuridico entro il quale gli individui sviluppano le loro potenzialità. L'economia di mercato dev'essere regolata dalla politica, ma non può essere piegata a un obiettivo «esterno» ai processi che ne presiedono la produzione di ricchezza. Che è neutrale. L'interventismo pubblico nell'economia di mercato è come l'intrusione della polizia nelle libertà politiche dei cittadini. Da noi la legislazione non fissa solo norme di condotta. Vuole modellare l'Uomo. Ma l'enorme produzione di leggi vanifica la certezza del diritto e paralizza la società. Pdl e Pd non capiscono che, per modernizzare il Paese, è vitale una radicale «semplificazione legislativa » che riduca la pletora di leggi vigenti. Il tema non era nei sondaggi.
E infatti il 5 marzo è entrata in vigore la legge 188/2007 che stabilisce quanto segue. 1) Il lavoratore che vuole dimettersi deve recarsi presso un soggetto intermedio: il Comune e simili. 2) Il soggetto intermedio si collega al Sistema Informativo Mdv del Ministero del Lavoro e inserisce i dati relativi alla dimissione. 3) Il Sistema rilascia il Documento delle Dimissioni Volontarie con un codice univoco e una data di rilascio (validità 15 gg.). 4) Il soggetto intermedio consegna al lavoratore il Documento emesso, vidimato. 5) Il lavoratore consegna il Documento al datore di lavoro. 6) Le dimissioni non sono valide se formulate in altra forma. E' un esempio di mentalità totalitaria: regolamentare tutto affinché tutto sia proibito tranne ciò che è espressamente consentito. La ratio, evitare che i datori di lavoro facciano firmare una lettera in bianco di dimissioni all'atto dell'assunzione. L'infrazione non è solo punita, come già accade; è anche resa impossibile. Parafrasando S. Agostino: la peste dello Stato (totalitario) è la possibilità di infrazione. Per il pensiero totalitario è il settore pubblico che produce «beni pubblici». Esso non distingue fra «servizio pubblico » — prestato dalla Pubblica amministrazione — e «beni pubblici», che rispondono al consumatore; li confonde, li assimila e, per fornire l'uno e produrre gli altri, aumenta le tasse. Ma in una società aperta non c'è distinzione fra settore pubblico e privato nella produzione di «beni pubblici». Che possono essere prodotti dall'uno o dall'altro. Se ai privati non conviene aprire una farmacia in un paesino, non si vede perché non lo debba fare il Comune. Diverso è il caso della struttura «privatistica », controllata dal Comune, che gestisce i cinema di Bologna. Il primo caso è società aperta; l'altro neo-comunismo municipale.

mercoledì 12 marzo 2008

Per una Pubblica Amministrazione...

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Mai liste così modeste. Unico criterio: la fedeltà al capo


Il Sole 24 Ore
11 marzo 2008
di Stefano Folli
Ora che la battaglia delle candidature è finita, si può verificare quanto siano mediocri le liste approntate dalle due maggiori formazioni, Popolo della libertà e Partito democratico. Salvo rare eccezioni, la pessima legge elettorale in vigore ha permesso ogni sorta di abuso ai vertici dei due partiti. Basta scorrere l'elenco dei candidati «blindati», cioè sicuri dell'elezione. Sono stati svuotati gli uffici stampa e le segreterie, saccheggiati i ruoli degli «assistenti parlamentari». Il seggio garantito è un'elargizione offerta dal capo-partito ai suoi subalterni fedeli.

Appunto la fedeltà è l'unica dote richiesta. Non la preparazione professionale o la conoscenza del diritto e della macchina dello Stato, tanto meno il senso politico. Niente di tutto questo, ma l'assoluta fedeltà ai voleri del leader. Difatti si va in Parlamento quasi esclusivamente per premere il pulsante nelle votazioni. Non per svolgere attività legislativa, mettere a punto disegni di legge e interrogazioni, alimentare il dibattito sui grandi temi. E nemmeno ci si va per tenere qualche discorso di rilievo in aula (peraltro quasi sempre semi-deserta).

Nella remota e vituperata Prima Repubblica il lavoro parlamentare assorbiva energie spesso di prim'ordine. Anche quando il sistema politico stava degenerando, alla Camera e al Senato agiva un piccolo esercito di professionisti della vita civile, oppure di professionisti della politica: in entrambi i casi erano personaggi in grado di lasciare un'impronta nella legislatura. E gli errori di fondo (ad esempio, le leggi che gonfiavano la spesa pubblica) erano il frutto di scelte politiche sbagliate, quasi mai nascevano dalla cattiva qualità del singolo legislatore.

Ora è diverso. Complice la legge Calderoli, i due leader, Berlusconi e Veltroni, hanno riempito le liste con le figure più stravaganti. Tanto nessuno deve prendersi la briga di raccogliere voti, fare campagna elettorale, convincere gli italiani. Non ci sono collegi, se non pro-forma. Non c'è più alcun rapporto fra gli elettori e l'eletto. Le radici territoriali sono sempre meno importanti. C'è una deputata altoatesina di Forza Italia, molto nota a Bolzano, che si è ritrovata spedita in Campania.

Per certi aspetti, si registra anche sui criteri delle liste una curiosa simmetria fra i due principali contendenti. Che procedono per categorie: le donne, i giovani... Ma in realtà le figure davvero rappresentative della società (le scienze, l'università, il mondo produttivo) non sono più di una ventina. Il resto serve solo a far da contorno ai capi. Infatti si voteranno i leader, non i candidati. Mai campagna elettorale è stata così centrata sui due personaggi-simbolo, Berlusconi e Veltroni. Tutti gli altri svaniscono sullo sfondo, una volta esaurita la loro breve funzione simbolica.

Per il resto avremo chi porterà in Parlamento l'inesperienza, come ha detto una simpatica ragazza veltroniana. Viceversa, dalle Camere resteranno fuori molti esponenti della cultura liberale (lo ha notato su queste colonne Salvatore Carrubba). La penosa polemica intorno a Ciarrapico e alla sua fede fascista la dice lunga sulla sensibilità di chi ha compilato le liste. Nell'Italia del 2008 avremo in Parlamento Ciarrapico, ma non Capezzone. E nemmeno un vecchio leone come Marco Pannella ha trovato ospitalità (nonostante il gesto del socialista Boselli). L'argomento dell'età è servito a eliminare personaggi scomodi e soprattutto poco allineati ai due leader di partiti che ormai sono solo macchine per raccogliere il consenso.



mercoledì 5 marzo 2008

Le liste di Veltroni? Solo una collezione di Figurine Panini ?
Vogliamo parlarne?

La figlia di Cardinale: io sostituta di papà?

Corriere della Sera
2008-03-05

Candidata in Sicilia MILANO — Questa cosa del «Cardinale» e poi della parola «donna» sbianchettata sulla lista insospettisce. «Ma no, giuro che non mi hanno messo al posto di mio padre».Però lei è Daniela, figlia del ministro Salvatore Cardinale. Che ha sperato fino all'ultimo. «Ma se aveva scritto anche ai giornali per rinunciare. C'è il limite di mandato, non poteva».L'accusano di nepotismo, di essere figlia di papà? Come la Madia. «Sono orgogliosa di mio padre, è un grande maestro. Ma la Madia che c'entra? L'hanno accusata?».Lei, esattamente, perché è stata candidata? «Il ministro Fioroni mi ha onorato della proposta. Ma ha deciso Marini».E come mai ha scelto lei? «Mi conosce. È venuto da noi in campagna, due anni fa».E vi siete piaciuti subito? «Ha avuto modo di apprezzarmi».Lei ha esperienza di politica? «No. Ma mi ricordo quando hanno eletto mio padre. Avevo 5 anni, una festa bellissima: sventolavamo la bandiera Dc».Insomma, un po' poco. Suo padre dice che lei ha «il morbo della politica», ma che ora deve «volare con le sue ali». Prima ha telefonato: «Trepido, non vorrei che scrivesse che è raccomandata». «Sono orgogliosa di lui».Diciamoci la verità: lei è raccomandata. «Se non fossi stata sua figlia, non avrei conosciuto Fioroni e Marini».E non sarebbe al sesto posto in lista. Prima di Enzo Carra. E della ragazza del call center. «Sì, spero di farcela».Dice suo padre che l'hanno candidata «anche perché è una bella ragazza». «Ah sì? Che carino».Si trova bella? «Carina direi. E fidanzata».Che studi ha fatto? «Ho la laurea triennale al Link Campus di Roma in Scienza della comunicazione. Ora mi sto specializzando in Comunicazione d'impresa e pubblicità a Palermo».Link? L'università di Malta? «Sì. Quella fondata dall'ex ministro Scotti».Ah ecco, Scotti. Anche lì le davano della raccomandata? «Sì, ho dovuto lavorare il doppio».Che vita fa? «Sono una persona normale. Una brava ragazza. Vado a cavallo».Ultimo libro letto? «Ultimamente? Beh no, studio».Dell'aborto che ne pensa? «Che è una scelta difficile. Ma le donne devono essere lasciate libere».A Roma sarà sempre la figlia di Cardinale. «All'inizio sì. Poi mi farò valere». Alla fine ha deciso Marini Non ho esperienza politica: quando hanno eletto papà avevo 5 anni, mi ricordo la festa con la bandiera dc Daniela Cardinale Alessandro Trocino




Il sindaco di Venezia «Con le scelte dall'alto e le signorine grandi firme non si costruisce un partito»

Corriere della Sera
2008-03-05
ROMA

Candidando «le signorine grandi firme» si possono anche vincere le elezioni ma «non si costruisce un partito».È durissimo il giudizio di Massimo Cacciari, il sindaco-filosofo di Venezia, sulla gestione delle candidature, in particolare nel Nord-Est.Veltroni ha estratto per il Veneto una delle sue carte a sorpresa più riuscite: ha candidato capolista il presidente di Federmeccanica Massimo Calearo, imprenditore di simpatie di centrodestra. «Premetto che non lo conosco personalmente, Massimo Calearo, e dunque non dò un giudizio sulla persona ».Ma... «Ma non credo che possa spostare un solo voto verso di noi. O meglio, la somma algebrica di qualcosa recuperato a destra e di qualche voto perso a sinistra sarà zero».Resta il fatto che ha un valore simbolico. «Il simbolo di una scelta imposta dall'alto, da Roma. Ma non è con i simboli che si fa un partito: se vogliamo costruire un partito dobbiamo radicarci sul territorio, con giovani e donne che rappresentino realtà culturali e anche imprenditoriali e non con le signorine grandi firme».Aver candidato Calearo infrange un tabù: la sinistra non parla agli imprenditori del Nord est. «Ma stiamo scherzando? Ci sono da sempre imprenditori veneti con simpatie per il centrosinistra. Abbiamo avuto Massimo Carraro candidato governatore della Regione. E poi ci sono stati i Marzotto, Pietro e Paolo, e Benetton che era con i repubblicani. Ma non è con questi imprenditori, anche di spessore culturale, che si modificano le traiettorie storiche in questa regione. Non le modifichi con gli escamotage. Bisogna saper parlare con 10 mila piccoli imprenditori, avere strutture di partito credibili, fare in modo che loro possano avere fiducia in te. Il resto sono fesserie alla Berlusconi. Noi vogliamo assomigliare a Berlusconi?» Insomma lei Calearo non l'avrebbe voluto in lista. «Non mi interessa parlare di Calearo o di un altro, per giunta non lo conosco.E lungi da me gettare la croce su Tizio o Caio. Sto facendo un discorso di prospettiva: dobbiamo capire se vogliamo costruire un partito con scelte di impegno e di sostanza o solo con l'immagine. È pur vero che molto dipende dal fatto che c'è questa legge elettorale che spinge a fare le liste pessimamente ».La legge è brutta, ma un po' di discrezionalità ai segretari, anzi molta, nel fare le liste la garantisce. «La legge elettorale spinge a centralizzare le candidature, anche se si parte con le migliori buone intenzioni si finisce male. Bisognerebbe essere obbligati a tenere conto dell'espressione del territorio. Io credo che una grande, enorme, responsabilità ce l'ha il governo Prodi: quella di non aver fatto una riforma elettorale che cambiasse questo meccanismo perverso».Si dovevano fare le primarie per i candidati? «Ma no, era impensabile fare le primarie, ma così sono decise tutte le candidature al centro e con logiche di corrente ».È vero che il Partito democratico in autunno era partito con un forte coinvolgimento del territorio, delle forze giovani. «Ma adesso io voglio sapere se Veltroni vuole fare un partito o un movimento a spot tipo quello del Cavaliere. Se si va in questa direzione, fottiamocene di donne e giovani e facciamoli fuori per paracadutare uno in un posto solo perché ha una buona immagine. Dobbiamo deciderci su cosa vogliamo fare da grandi: Berlusconi con questa logica dell'immagine ha vinto due volte ma noi credo vogliamo fare un partito e non Forza Italia o Forza Milan ».Lei crede nella rimonta? «Veltroni ha una bella immagine, sa comunicare. Mi auguro che possa anche vincere. Ma io guardo al di là del mio naso, e mal me ne incoglie ogni volta, e mi domando: quando cambierà la legge elettorale, che prima o poi cambierà, cambierà il modo di scegliere i candidati o questa è una scelta culturale? » E cosa risponde? «È presto per dirlo».Gianna Fregonara


LA VITTORIA DEI CONTENITORI


Corriere della Sera - 2008-03-05
di GIUSEPPE DE RITA
In una campagna elettorale per il momento deludente c'è un aspetto che non è stato adeguatamente messo a fuoco: nelle nostre vicende sociopolitiche il fattore appartenenza sta irrevocabilmente vincendo sul fattore identità.Molte formazioni a lungo identitarie tendono infatti a intrupparsi in appartenenze di più tenue caratterizzazione. L'identità radicale, forse per anni la più marcata, si stempera in una potente lista elettorale sposandone le proposte più lontane dalla propria storia; l'identità post-fascista, che pure ha attraversato l'Italia degli ultimi sessanta anni, si scioglie in un grande raggruppamento di destra, fatalmente populista e un po' generico; l'identità socialista, storicamente ancora più pesante, rischia di scomparire dalla scena se non entra nel Partito democratico. E mette conto di ricordare che in quest'ultimo sono confluite, alla faticosa ricerca di una più ampia appartenenza, i resti delle due grandi identità politiche (comunista e democristiana) che hanno fatto la storia collettiva del Paese.Tutti nei grandi contenitori, l'identità resta un residuo del passato: non più brand competitivo ma brandello d'immagine. Quando non degrada ad arma contrattuale: si rivendica spesso un'identità per rivendicare un peso (anche di candidati) ma l'appartenenza è fuori discussione. Perché è l'appartenenza, e solo lei, il fattore che tiene insieme i pezzi.Il crescente primato dell'appartenenza sull'identità è molto più serio di una strategia elettorale, ha anche valenza politica e riscontro sociale. Se si pensa alla valenza politica è quasi banale dire che la condensazione cui stiamo assistendo (pochi partiti e, se possibile, grandi) rispecchia da un lato la stanchezza di tutti, anche dei protagonisti, verso la frammentazione partitica generata da sempre più residuali identità collettive; ma ancor più rispecchia l'obbligata onnicomprensività (l'et et) cui deve obbedire ogni grande contenitore che voglia corrispondere alle domande (o ai disagi) degli elettori. Ma anche nella realtà sociale dobbiamo constatare il primato dell'appartenenza sull'identità. Si pensi ai due estremi delle strutture di rappresentanza: da una parte i grandi sindacati sviluppano strategie e connotazioni di grande appartenenza (la cosa è visibilissima nelle realtà locali e specialmente nella Cisl); dall'altra, le grandi centrali datoriali o si condensano in più ampie appartenenze (la concentrazione delle rappresentanze assicurative e finanziarie) oppure, come nella rappresentanza industriale, valgono più i circuiti di appartenenza confederale che gli interessi e i comportamenti che fanno l'identità industriale, individuale o collettiva che sia.Dobbiamo tutti renderci conto che nella nostra società dominano le appartenenze: quelle elettorali, quelle politiche, quelle sociali, e anche quelle di quotidiana vita collettiva, (di cui la faccia buona è il volontariato, quella cattiva sono le bande urbane senza nessuna aspirazione identitaria, neppure di tifo calcistico o di razzismo celtico). Se non ce ne renderemo conto, dovremo aspettare che cresca una nuova classe dirigente temprata dalla prassi dell'appartenenza; se invece qualcuno capirà prima è possibile che le prossime elezioni possano essere vinte da chi si proporrà, con più forza di convincimento, come «grande appartenenza ».

domenica 2 marzo 2008

Veltroni a Livorno

"L'Italia non ha bisogno che qualcuno gli dica di rialzarsi (...) quella che deve rialzarsi è la politica italiana (...) abbiamo bisogno di nuovo, abbiamo bisogno di aria fresca, abbiamo bisogno di non sentire quello che abbiamo sentito per 15 anni..." W.V.

WALTER VELTRONI A LIVORNO




In Parlamento i valori della pace e della coesistenza
A Livorno presentata la candidatura del generale Del Vecchio
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