Intervista con Veltroni di Giuliano Ferrara - Il Foglio
Roma. Su una poltroncina gialla nell’anticamera del suo ufficio da sindaco, al primo piano del Campidoglio, Walter Veltroni discute con il Foglio per un’ora di cosa intende quando parla di rottura (rupture) democratica. In una delle settimane più importanti per il governo di Prodi, per il Partito democratico e per il destino dell’asse tra il Cav. e W (Cav + W), Veltroni usa parole nuove per definire il suo rapporto tra religione e politica, dà un’interessante interpretazione della guerra in Iraq (che anche Donald Rumsfeld, probabilmente, condividerebbe), dice qualcosa di nuovo su Romano Prodi, su Silvio Berlusconi, sulla Prima Repubblica, su Tangentopoli, sui Pacs, sui Cus, sulla maggioranza, sul fund raising e anche su Alitalia (“La cosa che mi piacerebbe di più è che le proposte di Air France e Air One si incrociassero. Per garantire la forza di un soggetto come Air France e la forza di un soggetto finanziario come banca Intesa, e al tempo stesso però il radicamento nel paese di una compagnia nazionale. Conta l’offerta che viene fatta, contano le strategie industriali, conta sapere per il paese che esito avrà la sua compagnia nazionale”). Entrando nel cuore della sua idea di Partito democratico (la cui vocazione maggioritaria più che a Botteghe Oscure si ispira sempre di più alla filosofia senza tessera e senza congressi dei democrat americani), Veltroni parla in un modo nuovo anche di referendum elettorale: quel referendum fino a ieri “sostenuto ma non firmato” e su cui oggi, invece, Veltroni ammette che, a certe condizioni, potrebbe dire di sì: intravedendo una possibile tutela della “vocazione maggioritaria” nel testo su cui la Consulta darà un giudizio di costituzionalità entro la metà di gennaio.
Due mesi fa tre milioni di elettori scelsero W come leader del Pd; due settimane fa, al quinto piano del palazzo dei gruppi parlamentari, W ha incontrato il leader dell’opposizione Silvio Berlusconi; tra poche settimane Romano Prodi dovrà affrontare quella verifica di governo di cui sabato Veltroni ha parlato con Romano Prodi: tra un’intervista alle 9.15, un matrimonio celebrato alle 11.30 e un compleanno centenario festeggiato alle 10.30 a casa della signora Broccolo. Quello che parla con il Foglio è un Veltroni un po’ meno spagnolo, sempre meno tedesco, molto americano ma pure un po’ francese. E’ un Veltroni che fa un paio di assist al Cav., che rilegge in modo curioso un aspetto dello strappo di Fausto Bertinotti con Prodi e che, quando si parla di religione e di politica, non ha nulla da ridire sulle parole di Obama (“I laici sbagliano a chiedere ai credenti che entrano in politica di lasciare da parte la religione”). W sorride leggendo la prima pagina del Foglio di sabato sui leader cristiani in corsa in America per la presidenza; e alla domanda: “Che cosa significa Cristo in politica?”, dà una risposta che farà insospettire chi crede che sia “molto difficile essere laici nel paese delle chiese” (Eugenio Scalfari, Repubblica 16 dicembre).
Spiega Veltroni: “Cristo in politica è giusto e legittimo che lo porti chi ha Cristo dentro di sé. E che lo porti e non lo lasci a casa. L’idea che qualche volta la politica ha avuto anzi, che spesso la politica ha, fa parte di una visione del mondo che io non condivido: che la laicità dello stato – che io considero come un valore assolutamente indiscutibile e indisponibile – presupponga una sorta di rinuncia alle identità di ciascuno. Qui dentro però io ci vedo una delle chiavi della possibile convivenza del nuovo millennio: il tema del rapporto tra identità e dialogo. E’ un tempo, questo, in cui di fronte alla paura delle grandi trasformazioni economiche e finanziarie, e della circolazione delle persone con la loro visione del mondo e la loro religione, sembra prevalere in ciascuno l’idea di arroccarsi in una dimensione identitaria: un po’ per conforto, un po’ per rassicurazione; ma con l’idea che questo possa essere l’antidoto al processo di melting pot in corso. Tutto questo lo si può affrontare in due modi: lo si può affrontare accettandolo passivamente. Ma il rischio dell’accettazione passiva è che si finisca con il legittimare anche le forme attraverso le quali questa identità figlia di divisioni culturali, religiose, di concezioni della comunità pubblica diversa dalle nostre, si fa integralista, fino ai rischi del fondamentalismo. Oppure lo si può accettare con l’idea che l’identità non sia uno straccio. E che l’identità sia figlia della storia, delle culture, delle radici, delle ragioni e che sia un valore. Perché se è vero che è necessario il dialogo, il dialogo ha senso se ci sono tante identità. E se qualcuno afferma e difende queste identità. La grandezza della cultura politica dovrebbe essere quella di far convivere la propria identità con la disponibilità all’apertura. Qui sta l’idea del rapporto tra stato laico e punto di vista religioso”.
Veltroni ora entra nel cuore del discorso: “Personalmente non sono credente e non avrebbe senso che io fossi considerato un christian leader, anche perché esiste una sfera che è assolutamente personale che mi dà fastidio dover usare quando c’è qualcosa che è pubblico (ho visto, a proposito del rapporto tra politica e religione, trasformazioni troppo repentine determinate dalle contingenze del momento). Però vorrei che la mia idea fosse chiara: a me ha sempre culturalmente affascinato la vocazione pastorale della chiesa mentre mi piace meno quella chiesa che ogni giorno sforna prescrizioni morali di comportamento: lo considero un po’ una riduzione della grandezza della missione e della funzione della stessa chiesa. Io sono stato molto affascinato da Giovanni Paolo II, l’ho conosciuto ho avuto modo di parlare con lui diverse volte, mi piaceva enormemente la coesistenza in lui di identità e dialogo. Mi piaceva il fatto che sulle questioni che attengono alla responsabilità della chiesa lui avesse le sue posizioni, che per altro misurava con grandissima sapienza. Ma non dimentichiamolo mai è stato il Papa delle invettive contro il capitalismo egoista, è stato il Papa che ha denunciato lo strazio dell’Africa, è stato il Papa più impegnato per la pace e il dialogo tra le religioni. Ecco: a me interessa che nel Partito democratico ci siano persone che portano il punto di vista, le esperienze, la cultura religiosa con la disponibilità a incontrarle laicamente. Come dice il Dalai Lama, ‘la religione deve in qualche misura sempre essere consapevole del carattere parziale, limitato della sua funzione’”.
Manca però, nel discorso di Veltroni, un concetto chiave: la libertà di coscienza. Quella libertà che, due settimane fa, ha portato la cattolica Paola Binetti a votare “no” alla fiducia di Romano Prodi sull’emendamento che a sinistra continuano a chiamare “antiomofobico” e in realtà riguarda l’identità di genere, cioè una formula ideologica. Omofobia è una parola che Veltroni conosce bene; e che, in un certo senso, ha affrontato anche ieri in consiglio comunale, dove è stato votato un testo presentato dal consigliere della Rosa nel Pugno Gianluca Quadrana sul tema del registro delle unioni civili. Veltroni la pensa così. “Su questo argomento, a Roma, abbiamo già fatto un grandissimo passo in avanti. Mi spiego: tutto ciò che è previsto nelle politiche sociali lo diamo attraverso la residenza anagrafica, per cui se due persone risiedono anagraficamente nello stesso posto hanno la possibilità di accedervi indipendentemente dalla natura della relazione che li ha portati a vivere sotto lo stesso tetto. Ecco, penso che quello che si sta facendo in Parlamento con i Cus sia una base abbastanza giusta; cioè l’idea di avere definizione in forma privata dell’identità di relazione che c’è e che può essere diversa da quella della famiglia tradizionale, anche se io sono perché la famiglia costituzionalmente prevista sia assolutamente garantita. Però i Cus sono una buona base su cui ragionare”. E il matrimonio tra omosessuali? “I Cus sono una buona base su cui ragionare”, ripete Veltroni. Che poi aggiunge: “Non mi piace tra i cattolici, tanto quanto non mi piace tra i laici, quando si utilizzano vicende di questa delicatezza a fini simbolici. Alla mia domanda ai presentatori della proposta del registro sulle coppie di fatto, ‘cosa cambia nella vita delle coppie di fatto delle quali parliamo’ la risposta è: ‘Nulla, ma ha un valore simbolico’. Ecco, a me piacciono le cose concrete. Mi piace costituirmi parte civile con il comune quando un omosessuale viene aggredito. Mi piace dedicare una strada a un omosessuale che è stato ucciso e che è vittima dell’omofobia. Mi piacciono le cose che abbiano una loro concretezza nella vita delle persone”.