L’Unità 25/09/08
Gianfranco Pasquino
Partito Democratico
Un partito si impianta, si costruisce, si rafforza e, persino, si espande quando le sue procedure di reclutamento degli iscritti sono inclusive, vale a dire aperte ad un seguito potenziale molto ampio, e le sue procedure di selezione dei dirigenti e dei candidati sono altrettanto aperte, ma anche trasparenti e competitive. Nel suo Statuto nazionale (e, per quello che è possibile saperne, anche negli Statuti regionali), il Partito Democratico afferma solennemente principi.
Il primo, che tutte le cariche monocratiche debbono essere contendibili. Il secondo, che le primarie debbono costituire lo strumento principale per scegliere le candidature a quelle cariche, ovvero per consentire agli iscritti e, forse anche agli elettori potenziali di partecipare ai processi di selezione. Naturalmente, almeno in una certa misura, è comprensibile che il passaggio dalla lettera (e dallo spirito) degli statuti alla pratica risulti in non poche realtà locali alquanto complicato e conflittuale. Tuttavia, almeno su un punto, dovrebbe essere reso chiaro e ribadito che non si può tornare indietro. Qualora ci sia più di una candidatura ad una carica elettiva si debbono indire elezioni primarie e non come qualcuno ha sostenuto convocare «robuste e sane (a parere di chi?) assemblee cittadine» che non sono menzionate da nessuna parte nello Statuto e che certamente sarebbero tutto meno che mobilitanti per gli iscritti e gli elettori. A Firenze, grazie al fatto che il sindaco non è rieleggibile, la situazione sembra chiarissima. Si sono variamente manifestate diverse candidature e, dunque si dovranno tenere elezioni primarie per scegliere fra di loro il prossimo candidato sindaco. Rimane, però, da specificare un punto chiave: saranno primarie ristrette ai soli iscritti al Partito Democratico oppure saranno primarie di coalizione aperte sia a candidature non del Pd, ma espresse da partiti disposti a governare con il Pd, sia agli elettori dei partiti coalizzabili? Comunque si decida, ed esistono buone ragioni per entrambe le opzioni, un altro punto dovrebbe essere chiaro o chiarito. I dirigenti dei partiti, a cominciare dal Pd, hanno il diritto di esprimersi a favore di una candidatura piuttosto che di un’altra, ma nessuno di loro può impegnare il partito in quanto tale. A Bologna e in tutte le situazioni nelle quali vi sia un sindaco in carica che aspira al secondo mandato, la situazione è più complessa. E, infatti, non mancano le tensioni. Il principio generale dello Statuto nazionale deve essere fatto valere senza tentennamenti e senza eccezioni. La carica è contendibile. Dunque, se qualcuno vuole candidarsi, bisogna, anzitutto, che si faccia avanti e alzi la mano, come ha detto Arturo Parisi, ma subito dopo quel qualcuno deve darsi da fare per raccogliere il numero di firme stabilite dal regolamento del Partito Democratico. Per il sindaco in carica, la raccolta di firme non dovrebbe essere necessaria, ma questo non significa affatto che il sindaco possa firmare, come ha provocatoriamente dichiarato un paio di volte Cofferati, per il suo eventuale oppositore, che sia uno o più di uno. Leggo che, un po’ dappertutto serpeggia il timore di primarie laceranti che conducano poi alla sconfitta nelle elezioni amministrative. Sembra che sia già anche successo così, ma mi riserverei di approfondire se la causa della sconfitta non fosse un partito già diviso piuttosto che il prodotto di primarie male congegnate e peggio praticate. Mi parrebbe ovvio che chi si candiderà alle primarie debba assumere il nobile e solenne impegno ad appoggiare chiunque conquisterà la candidatura. Continuo anche a pensare che un partito che si chiama “democratico” debba essere costituito da persone, gentildonne e gentiluomini, che si comportano in maniera democratica, accettando il verdetto espresso dagli elettori e che sappiano che un Partito cresce quando vince le elezioni e che, dunque, la vittoria del prescelto dalle primarie servirà a tutto il partito e quindi anche a candidate sconfitti nelle primarie. Non voglio, in conclusione, in nessun modo negare che le primarie sono uno strumento che produce anche tensione e delusione. Penso, poiché molti richiamano le primarie presidenziali Usa (ma quelle italiane dovrebbero essere piuttosto paragonate alla scelta dei candidati governatori Usa), al sofferto discorso di “concessione” splendidamente pronunciato da Hillary Clinton. Ma, le primarie producono anche informazioni sulla biografia politica dei candidati, sui programmi e sulle priorità. Non sono mai “concorsi di bellezza” e, infine, lanciano, sulla coda della mobilitazione conseguita, una campagna elettorale che parte con l’abbrivio. I cittadini coinvolti non soltanto saranno più soddisfatti, ma probabilmente saranno anche disponibili a partecipare attivamente per fare vincere il candidato prescelto.
Gianfranco Pasquino
Partito Democratico
Un partito si impianta, si costruisce, si rafforza e, persino, si espande quando le sue procedure di reclutamento degli iscritti sono inclusive, vale a dire aperte ad un seguito potenziale molto ampio, e le sue procedure di selezione dei dirigenti e dei candidati sono altrettanto aperte, ma anche trasparenti e competitive. Nel suo Statuto nazionale (e, per quello che è possibile saperne, anche negli Statuti regionali), il Partito Democratico afferma solennemente principi.
Il primo, che tutte le cariche monocratiche debbono essere contendibili. Il secondo, che le primarie debbono costituire lo strumento principale per scegliere le candidature a quelle cariche, ovvero per consentire agli iscritti e, forse anche agli elettori potenziali di partecipare ai processi di selezione. Naturalmente, almeno in una certa misura, è comprensibile che il passaggio dalla lettera (e dallo spirito) degli statuti alla pratica risulti in non poche realtà locali alquanto complicato e conflittuale. Tuttavia, almeno su un punto, dovrebbe essere reso chiaro e ribadito che non si può tornare indietro. Qualora ci sia più di una candidatura ad una carica elettiva si debbono indire elezioni primarie e non come qualcuno ha sostenuto convocare «robuste e sane (a parere di chi?) assemblee cittadine» che non sono menzionate da nessuna parte nello Statuto e che certamente sarebbero tutto meno che mobilitanti per gli iscritti e gli elettori. A Firenze, grazie al fatto che il sindaco non è rieleggibile, la situazione sembra chiarissima. Si sono variamente manifestate diverse candidature e, dunque si dovranno tenere elezioni primarie per scegliere fra di loro il prossimo candidato sindaco. Rimane, però, da specificare un punto chiave: saranno primarie ristrette ai soli iscritti al Partito Democratico oppure saranno primarie di coalizione aperte sia a candidature non del Pd, ma espresse da partiti disposti a governare con il Pd, sia agli elettori dei partiti coalizzabili? Comunque si decida, ed esistono buone ragioni per entrambe le opzioni, un altro punto dovrebbe essere chiaro o chiarito. I dirigenti dei partiti, a cominciare dal Pd, hanno il diritto di esprimersi a favore di una candidatura piuttosto che di un’altra, ma nessuno di loro può impegnare il partito in quanto tale. A Bologna e in tutte le situazioni nelle quali vi sia un sindaco in carica che aspira al secondo mandato, la situazione è più complessa. E, infatti, non mancano le tensioni. Il principio generale dello Statuto nazionale deve essere fatto valere senza tentennamenti e senza eccezioni. La carica è contendibile. Dunque, se qualcuno vuole candidarsi, bisogna, anzitutto, che si faccia avanti e alzi la mano, come ha detto Arturo Parisi, ma subito dopo quel qualcuno deve darsi da fare per raccogliere il numero di firme stabilite dal regolamento del Partito Democratico. Per il sindaco in carica, la raccolta di firme non dovrebbe essere necessaria, ma questo non significa affatto che il sindaco possa firmare, come ha provocatoriamente dichiarato un paio di volte Cofferati, per il suo eventuale oppositore, che sia uno o più di uno. Leggo che, un po’ dappertutto serpeggia il timore di primarie laceranti che conducano poi alla sconfitta nelle elezioni amministrative. Sembra che sia già anche successo così, ma mi riserverei di approfondire se la causa della sconfitta non fosse un partito già diviso piuttosto che il prodotto di primarie male congegnate e peggio praticate. Mi parrebbe ovvio che chi si candiderà alle primarie debba assumere il nobile e solenne impegno ad appoggiare chiunque conquisterà la candidatura. Continuo anche a pensare che un partito che si chiama “democratico” debba essere costituito da persone, gentildonne e gentiluomini, che si comportano in maniera democratica, accettando il verdetto espresso dagli elettori e che sappiano che un Partito cresce quando vince le elezioni e che, dunque, la vittoria del prescelto dalle primarie servirà a tutto il partito e quindi anche a candidate sconfitti nelle primarie. Non voglio, in conclusione, in nessun modo negare che le primarie sono uno strumento che produce anche tensione e delusione. Penso, poiché molti richiamano le primarie presidenziali Usa (ma quelle italiane dovrebbero essere piuttosto paragonate alla scelta dei candidati governatori Usa), al sofferto discorso di “concessione” splendidamente pronunciato da Hillary Clinton. Ma, le primarie producono anche informazioni sulla biografia politica dei candidati, sui programmi e sulle priorità. Non sono mai “concorsi di bellezza” e, infine, lanciano, sulla coda della mobilitazione conseguita, una campagna elettorale che parte con l’abbrivio. I cittadini coinvolti non soltanto saranno più soddisfatti, ma probabilmente saranno anche disponibili a partecipare attivamente per fare vincere il candidato prescelto.
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