MASSIMO PAOLI
Declino, si fa presto a dire declino! Ma lo vedi, è tutto intorno a te, lo puoi toccare e ha persino un odore, quello del fritto delle feste che servono a dimenticarlo per un po’, ad esorcizzarlo temporaneamente e consentirci di far come gli struzzi, cacciare la testa sotto la sabbia … sotto al fritto misto, in realtà.
Messa sotto pressione la struttura economico-produttiva, come ogni altra, scricchiola, i suoi avvertimenti sono lunghe lamentose cacofonie. L’impresa tal dei tali venuta qui molti anni fa chiude, un'altra si salva per miracolo, ma poi risulta che è stata venduta ad un’altra impresa ancora, così che da primo fornitore ad un certo punto della filiera diventa un fornitore come gli altri (lungi dall’essere più il “primo” o addirittura è divenuta di fatto un subfornitore). Oppure, come titoli di giornale: salvati 70 posti di lavoro (Trelleborg), passati da Siemens a Continental altri 700, salvati 60mila contenitori (è il caso MSC di qualche mese fa), riformulata l’operazione Rossignolo, salvata la riparazione in porto (per queste ultime due situazione ancora non si può dire, ma magari si dirà), speriamo di non dover dire anche salvati i quasi 800 (tra diretti e no) posti di lavoro Eni, insomma …. salvata, …. deviata in corner, …. rinviata in tribuna….. declino.
Abbiamo detto che è stato soft, e che lo è ancora. Ma la rete si destruttura, la maglia che salta viene rattoppata, e così si avanti per un po’, ma maglia dopo maglia la rete si indebolisce, tutti i sistemi complessi hanno punti di rottura catastrofici. Quale sarà il punto di non ritorno del nostro sistema areale? Per fortuna quegli stessi sistemi complessi sono “resilienti” e ciò vuol dire che resistono come pochi altri alle “deformazioni”, sicché potrebbe essere ancora lontano il momento del brutto risveglio di un giorno che speriamo non venga mai.
Ma allora abbiamo la possibilità per evitare del tutto che quel giorno si presenti!
All’inizio degli anni ’90 si è tentato di proporre a questo territorio, così provato da una deindustrializzazione allora anche più feroce di quella di oggi, se non altro perché l’area aveva 25mila bocche da sfamare in più (tutta gente che, è doloroso e buffo dirlo, ci ha fatto il regalo di andarsene assieme agli insediamenti produttivi perduti), una politica molto costosa e complessa ma di grande successo dovunque sia stata utilizzata al meglio (dal Galles alla Scozia, passando per l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e la Germania dell’est appena annessa, giusto per rimanere solo in Europa). Quella politica si chiama “marketing per l’attrazione di investimenti esogeni”.
Marketing per attrarre investitori e investimenti cioè imprese non autoctone che nella logica della mondializzazione dell’apparato logistico-produttivo trovassero quest’area, la nostra, attraente e conveniente, al punto da installarvi un’unità logistica o produttiva (o logistico-produttiva).
Non so perché, ma quella parola, marketing, un po’ come titola un riuscito programma di parodia televisiva, non la si è voluta, potuta, o forse saputa interpretare per bene (siamo gli unici al mondo e qui parlo come paese, a non saper fare un filo di marketing per l’attrazione, e i dati sugli investimenti in Italia poi ce lo confermano).
Quel concetto, marketing, si è inesorabilmente trasformata nella sua versione nazional-politico-popolare: markette (e speriamo che Chiambretti non voglia i diritti di autore).
E ciò significa che qualche investitore è venuto, anzi importanti imprese hanno investito nell’area, ma perché questa è di per sé conveniente. Noi però, non li abbiamo scelti, non abbiamo negoziato con loro il futuro e abbiamo fatto anche meno per radicarli. Non è ancora troppo tardi per riprendere le redini di quella politica, bisogna coinvolgere pesantemente la Regione Toscana, che deve rendersi conto che se è vero che l’attrazione di investimenti forse non è urgente per la Toscana centrale dei distretti, è profondamente vero che è invece una politica urgente per la Toscana della costa.
Chi ci prova a farglielo capire?
Messa sotto pressione la struttura economico-produttiva, come ogni altra, scricchiola, i suoi avvertimenti sono lunghe lamentose cacofonie. L’impresa tal dei tali venuta qui molti anni fa chiude, un'altra si salva per miracolo, ma poi risulta che è stata venduta ad un’altra impresa ancora, così che da primo fornitore ad un certo punto della filiera diventa un fornitore come gli altri (lungi dall’essere più il “primo” o addirittura è divenuta di fatto un subfornitore). Oppure, come titoli di giornale: salvati 70 posti di lavoro (Trelleborg), passati da Siemens a Continental altri 700, salvati 60mila contenitori (è il caso MSC di qualche mese fa), riformulata l’operazione Rossignolo, salvata la riparazione in porto (per queste ultime due situazione ancora non si può dire, ma magari si dirà), speriamo di non dover dire anche salvati i quasi 800 (tra diretti e no) posti di lavoro Eni, insomma …. salvata, …. deviata in corner, …. rinviata in tribuna….. declino.
Abbiamo detto che è stato soft, e che lo è ancora. Ma la rete si destruttura, la maglia che salta viene rattoppata, e così si avanti per un po’, ma maglia dopo maglia la rete si indebolisce, tutti i sistemi complessi hanno punti di rottura catastrofici. Quale sarà il punto di non ritorno del nostro sistema areale? Per fortuna quegli stessi sistemi complessi sono “resilienti” e ciò vuol dire che resistono come pochi altri alle “deformazioni”, sicché potrebbe essere ancora lontano il momento del brutto risveglio di un giorno che speriamo non venga mai.
Ma allora abbiamo la possibilità per evitare del tutto che quel giorno si presenti!
All’inizio degli anni ’90 si è tentato di proporre a questo territorio, così provato da una deindustrializzazione allora anche più feroce di quella di oggi, se non altro perché l’area aveva 25mila bocche da sfamare in più (tutta gente che, è doloroso e buffo dirlo, ci ha fatto il regalo di andarsene assieme agli insediamenti produttivi perduti), una politica molto costosa e complessa ma di grande successo dovunque sia stata utilizzata al meglio (dal Galles alla Scozia, passando per l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e la Germania dell’est appena annessa, giusto per rimanere solo in Europa). Quella politica si chiama “marketing per l’attrazione di investimenti esogeni”.
Marketing per attrarre investitori e investimenti cioè imprese non autoctone che nella logica della mondializzazione dell’apparato logistico-produttivo trovassero quest’area, la nostra, attraente e conveniente, al punto da installarvi un’unità logistica o produttiva (o logistico-produttiva).
Non so perché, ma quella parola, marketing, un po’ come titola un riuscito programma di parodia televisiva, non la si è voluta, potuta, o forse saputa interpretare per bene (siamo gli unici al mondo e qui parlo come paese, a non saper fare un filo di marketing per l’attrazione, e i dati sugli investimenti in Italia poi ce lo confermano).
Quel concetto, marketing, si è inesorabilmente trasformata nella sua versione nazional-politico-popolare: markette (e speriamo che Chiambretti non voglia i diritti di autore).
E ciò significa che qualche investitore è venuto, anzi importanti imprese hanno investito nell’area, ma perché questa è di per sé conveniente. Noi però, non li abbiamo scelti, non abbiamo negoziato con loro il futuro e abbiamo fatto anche meno per radicarli. Non è ancora troppo tardi per riprendere le redini di quella politica, bisogna coinvolgere pesantemente la Regione Toscana, che deve rendersi conto che se è vero che l’attrazione di investimenti forse non è urgente per la Toscana centrale dei distretti, è profondamente vero che è invece una politica urgente per la Toscana della costa.
Chi ci prova a farglielo capire?
1 commento:
Bell'analisi di Paoli.La risposta alla crisi è di tipo settoriale e comunque interamente ascrivibile all'intervento istituzionale.Sono vecchi metodi di natura difensiva che non responsabilizzano l'imprenditore rendendolo l'autentico pace maker dell'intervento senza obblighi significativi nei confronti del mercato e delle parti in causa.Si tampona oggi in attesa della dismissione di domani.Un partenariato sciolto da qualsiasi vincolo e non rispettoso della norma amministrativa condanna la politica (che dovrebbe programmare)ad un ruolo furbesco e subalterno.Difficile ora come ora invertire la tendenza.
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