07-06-08,
NADIA URBINATI
Se chiediamo a un elettore del Pdl le ragioni del suo voto, non avremo difficoltà a comprendere che tra le sue idee e quelle espresse dai ministri e rappresentanti del Pdl esiste una forte sintonia. Comunque giudichiamo quelle idee, è indubbio che la coalizione che ha vinto le elezioni ha un linguaggio ideologico strutturato e un nucleo di valori riconoscibili a chi li condivide e agli altri. La sua forza sta proprio qui, nel fatto di avere un peso che non è solo numerico. Sembra che da questa parte dello spettro politico la ricomposizione dei partiti nel dopo-1992 sia avvenuta e la transizione verso un nuovo assetto di valori e di soggetti politici si sia conclusa. Lo stesso non si può dire della parte sinistra. A sinistra, la transizione è ancora in corso o probabilmente appena cominciata. La contro-prova? Se chiediamo a un elettore del Pd le ragioni del suo voto non ci vorrà molto a comprendere che, a parte la sacrosanta ragione "contro", manca tra lui e i suoi rappresentanti una comunanza di linguaggio e soprattutto comuni valori o punti di riferimento che valgano a orientare i giudizi politici. Anzi, su questioni centrali come la sicurezza e l' immigrazione, le idee dell' elettore Pd non paiono così diverse da quelle degli elettori del Pdl, salvo essere più moderate e meno populistiche (la qual cosa è comunque apprezzabile). Lo stesso si può dire della sinistra che siede in Parlamento, la cui agenda politica consiste di fatto in un' azione di aggiustamento delle posizioni della destra, per moderarne il tono più che invertirne la tendenza. Il centro-sinistra, e il Pd come suo partito più rilevante, sembra mancare di un' autonoma visione di società giusta o desiderabile, di un linguaggio o un nucleo di valori riconoscibili ai propri sostenitori e agli avversari. E c' è seriamente da dubitare che gli elettori del Pd comprendano o si identifichino sempre con ciò che i loro rappresentanti di volta in volta dicono o fanno. La sinistra è afona perché è vuota di idealità, ed è vuota di idealità anche perché ha sottovalutato (e continua a sottovalutare) il ruolo dell' ideologia nella democrazia rappresentativa. Per anni abbiamo letto della fine delle ideologie come di un segno di avanzamento della razionalità politica e della modernità (un' espressione ripetuta ad nauseam) - abbiamo appreso che l' ideologia denota fideismo e un' identificazione quasi-religiosa, fattori che sono di ostacolo alla formazione di un giudizio politico spassionato e imparziale. è interessante osservare come l' appello alla politica come imparzialità abbia avuto successo essenzialmente solo a sinistra. Molta parte delle stessa teoria politica, quella liberale non meno di quella democratica, ha contribuito a questo scivolamento normativista della politica, coltivando l' idea, sbagliata, che gli elettori che si recano alle urne siano come i giudici che siedono in tribunale: che lascino a casa opinioni, passioni e interessi per avvalersi solo di una razionalità imparziale. Ma i cittadini (e i loro rappresentanti) non sono come i giudici né come i tecnici o gli amministratori di un' azienda. La ragione del giudice e quella della politica deliberativa non sono forme identiche di giudizio, anche se è desiderabile che il cittadino democratico sappia riconoscerne la differenza. Indubbiamente le ideologie dei partiti di massa che hanno contribuito a ricostruire le democrazie nel dopoguerra sono definitivamente tramontate e con esse anche quel tipo religioso di ideologia. Ma l' ideologia non è solo fideismo mentre, d' altro canto, non è tramontato il bisogno di ideologia proprio perché le esperienze, le frustrazioni e le speranze che ci portiamo dietro quando andiamo (o non andiamo) a votare hanno bisogno di essere legate in un discorso compiuto che ci consenta di trascendere la nostra esperienza personale per riconoscerci come parte di un progetto pubblico più vasto e per riconoscere i nostri rappresentanti. Un popolo di elettori dissociati non è per se stesso capace di iniziativa politica. Ma una democrazia rappresentativa non è una folla di elettori dissociati come atomi, bensì una collettività di cittadini capaci di iniziativa politica, di giudizio e azione critica. L' iniziativa politica si avvale di un discorso compiuto nel quale gli attori (le idee e i loro portatori) devono poter essere riconoscibili per essere scelti e valutati. Ecco perché le democrazie rappresentative hanno un bisogno strutturale di ideologia. Hanno bisogno di punti di riferimento simbolici o ideali che consentano di raccogliere in unità i nostri interessi concreti e le nostre singole opinioni, distinguendoli da quelli di altri. è semplicemente insensato pensare che la democrazia possa esistere senza ideologie. Insensato e assurdo perché se davvero noi votassimo per candidati con i quali non ci sono legami ideali, non potremmo neppure operare alcun controllo indiretto su di loro, né quindi giudicarne l' operato a fine mandato. Senza una politica delle idee non c' è posto per il mandato politico. La destra ha compreso molto più velocemente e meglio della sinistra la necessità dell' ideologia e si è mostrata capace di usarla sia come insopportabile adesione fideistica sia, e questo è più interessante, come linguaggio etico: il discorso della compassione e della benevolenza come correttivo del mercato, della critica comunitaria del "mercatismo" globale per dirla con il ministro Giulio Tremonti è, mi faceva giustamente notare un amico, l' unico discorso ideologico oggi in circolazione in Italia, l' unico punto di riferimento capace di orientare l' agire politico. Per quanto riguarda la sinistra, da anni essa sembra mossa da una logica autolesionistica improntata alla sistematica volontà di recidere legami ideali e infine sopprimere anche i luoghi di aggregazione. Scomparse le sezioni dei partiti, scomparso l' associazionismo politico che non sia solo militanza elettorale, si è ora pensato bene di mettere in questione (con l' intenzione di cambiarne il nome) anche un tradizionale appuntamento annuale di lavoro aggregativo come le feste dell' Unità. A chi giova? Una classe politica che non ha legami stabili e simbolici con il territorio e i suoi elettori non è soltanto un ceto politico autoreferenziale, ma anche una classe politica meno controllabile, il segno di una preoccupante trasformazione oligarchica.
NADIA URBINATI
Se chiediamo a un elettore del Pdl le ragioni del suo voto, non avremo difficoltà a comprendere che tra le sue idee e quelle espresse dai ministri e rappresentanti del Pdl esiste una forte sintonia. Comunque giudichiamo quelle idee, è indubbio che la coalizione che ha vinto le elezioni ha un linguaggio ideologico strutturato e un nucleo di valori riconoscibili a chi li condivide e agli altri. La sua forza sta proprio qui, nel fatto di avere un peso che non è solo numerico. Sembra che da questa parte dello spettro politico la ricomposizione dei partiti nel dopo-1992 sia avvenuta e la transizione verso un nuovo assetto di valori e di soggetti politici si sia conclusa. Lo stesso non si può dire della parte sinistra. A sinistra, la transizione è ancora in corso o probabilmente appena cominciata. La contro-prova? Se chiediamo a un elettore del Pd le ragioni del suo voto non ci vorrà molto a comprendere che, a parte la sacrosanta ragione "contro", manca tra lui e i suoi rappresentanti una comunanza di linguaggio e soprattutto comuni valori o punti di riferimento che valgano a orientare i giudizi politici. Anzi, su questioni centrali come la sicurezza e l' immigrazione, le idee dell' elettore Pd non paiono così diverse da quelle degli elettori del Pdl, salvo essere più moderate e meno populistiche (la qual cosa è comunque apprezzabile). Lo stesso si può dire della sinistra che siede in Parlamento, la cui agenda politica consiste di fatto in un' azione di aggiustamento delle posizioni della destra, per moderarne il tono più che invertirne la tendenza. Il centro-sinistra, e il Pd come suo partito più rilevante, sembra mancare di un' autonoma visione di società giusta o desiderabile, di un linguaggio o un nucleo di valori riconoscibili ai propri sostenitori e agli avversari. E c' è seriamente da dubitare che gli elettori del Pd comprendano o si identifichino sempre con ciò che i loro rappresentanti di volta in volta dicono o fanno. La sinistra è afona perché è vuota di idealità, ed è vuota di idealità anche perché ha sottovalutato (e continua a sottovalutare) il ruolo dell' ideologia nella democrazia rappresentativa. Per anni abbiamo letto della fine delle ideologie come di un segno di avanzamento della razionalità politica e della modernità (un' espressione ripetuta ad nauseam) - abbiamo appreso che l' ideologia denota fideismo e un' identificazione quasi-religiosa, fattori che sono di ostacolo alla formazione di un giudizio politico spassionato e imparziale. è interessante osservare come l' appello alla politica come imparzialità abbia avuto successo essenzialmente solo a sinistra. Molta parte delle stessa teoria politica, quella liberale non meno di quella democratica, ha contribuito a questo scivolamento normativista della politica, coltivando l' idea, sbagliata, che gli elettori che si recano alle urne siano come i giudici che siedono in tribunale: che lascino a casa opinioni, passioni e interessi per avvalersi solo di una razionalità imparziale. Ma i cittadini (e i loro rappresentanti) non sono come i giudici né come i tecnici o gli amministratori di un' azienda. La ragione del giudice e quella della politica deliberativa non sono forme identiche di giudizio, anche se è desiderabile che il cittadino democratico sappia riconoscerne la differenza. Indubbiamente le ideologie dei partiti di massa che hanno contribuito a ricostruire le democrazie nel dopoguerra sono definitivamente tramontate e con esse anche quel tipo religioso di ideologia. Ma l' ideologia non è solo fideismo mentre, d' altro canto, non è tramontato il bisogno di ideologia proprio perché le esperienze, le frustrazioni e le speranze che ci portiamo dietro quando andiamo (o non andiamo) a votare hanno bisogno di essere legate in un discorso compiuto che ci consenta di trascendere la nostra esperienza personale per riconoscerci come parte di un progetto pubblico più vasto e per riconoscere i nostri rappresentanti. Un popolo di elettori dissociati non è per se stesso capace di iniziativa politica. Ma una democrazia rappresentativa non è una folla di elettori dissociati come atomi, bensì una collettività di cittadini capaci di iniziativa politica, di giudizio e azione critica. L' iniziativa politica si avvale di un discorso compiuto nel quale gli attori (le idee e i loro portatori) devono poter essere riconoscibili per essere scelti e valutati. Ecco perché le democrazie rappresentative hanno un bisogno strutturale di ideologia. Hanno bisogno di punti di riferimento simbolici o ideali che consentano di raccogliere in unità i nostri interessi concreti e le nostre singole opinioni, distinguendoli da quelli di altri. è semplicemente insensato pensare che la democrazia possa esistere senza ideologie. Insensato e assurdo perché se davvero noi votassimo per candidati con i quali non ci sono legami ideali, non potremmo neppure operare alcun controllo indiretto su di loro, né quindi giudicarne l' operato a fine mandato. Senza una politica delle idee non c' è posto per il mandato politico. La destra ha compreso molto più velocemente e meglio della sinistra la necessità dell' ideologia e si è mostrata capace di usarla sia come insopportabile adesione fideistica sia, e questo è più interessante, come linguaggio etico: il discorso della compassione e della benevolenza come correttivo del mercato, della critica comunitaria del "mercatismo" globale per dirla con il ministro Giulio Tremonti è, mi faceva giustamente notare un amico, l' unico discorso ideologico oggi in circolazione in Italia, l' unico punto di riferimento capace di orientare l' agire politico. Per quanto riguarda la sinistra, da anni essa sembra mossa da una logica autolesionistica improntata alla sistematica volontà di recidere legami ideali e infine sopprimere anche i luoghi di aggregazione. Scomparse le sezioni dei partiti, scomparso l' associazionismo politico che non sia solo militanza elettorale, si è ora pensato bene di mettere in questione (con l' intenzione di cambiarne il nome) anche un tradizionale appuntamento annuale di lavoro aggregativo come le feste dell' Unità. A chi giova? Una classe politica che non ha legami stabili e simbolici con il territorio e i suoi elettori non è soltanto un ceto politico autoreferenziale, ma anche una classe politica meno controllabile, il segno di una preoccupante trasformazione oligarchica.
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