venerdì 30 maggio 2008

PRIMARIE VERE, PRIMARIE SEMPRE…MA PER CHE COSA?

Il partito democratico ha costruito e messo in atto il percorso delle primarie. Una procedura, un idea per eleggere e selezionare la classe dirigente politica ed amministrativa.
PRIMARIE/CLASSE DIRIGENTE.
Oggi, mi pare almeno a parole, nessuno mette in discussione l’avvio, l’utilizzo delle ”primarie vere, primarie sempre” dopo la non bella figura nella scelta dei candidati nelle recenti elezioni politiche.
Allora, secondo me, l’attenzione, l’oggetto della riflessione e approfondimento riguarda le caratteristiche e quale classe dirigente dovrà essere espressione del nuovo partito.
Le primarie come metodo, la formazione della classe dirigente politico-amministrativa il fine.
Le valutazioni sulle elezioni politiche non lasciano scampo all’idea che Berlusconi andrà avanti con il vento in poppa per almeno cinque anni ed il governo ombra non è certo la soluzione per una sua opposizione.
Il P.D. esiste con un suo leader, ma un suo gruppo dirigente ancora un po’ “oscura”. Al momento non si vede. Soprattutto localmente.
Come innovare, formare o migliorare la classe dirigente?
Innanzitutto sgombrando l’idea che qui non si tratta di sostituire, magari per cooptazione, alcuni personaggi con altri ma di cambiare metodo, introducendo una filigrana di parametri che possono permettere una serena scelta sulle persona indipendentemente, aggiungo, dall’età e dal sesso.
Ne propongo alcuni:
· Merito
· Senso di responsabilità
· Etica pubblica
· Partecipazione
Valori, secondo me, di grande importanza per ricucire un rapporto positivo con i cittadini contrastando l’antipolitica che,alla lunga, non può che portare alla decomposizione della società.
Ne aggiungo altri due che possono essere strettamente conseguenti:
· Fiducia
· Capacità di sperimentare
Mi soffermo su questi due . La fiducia è una situazione che rende i cittadini più felici. Una bella e approfondita ricerca svolta da una studiosa italiana, Luisa Corrado, professoressa dell'università di Roma Tor Vergata e ricercatrice alla facoltà di Economia a Cambridge, ha vinto il premio per lo studio dal titolo: "La ricchezza dà la felicità?". Uno studio che rivela quanto siano infelici gli italiani insieme agli abitanti dei Paesi mediterranei, battuti dai freddi scandinavi che si piazzano invece ai primi posti. La ricerca, secondo la studiosa, analizza quanto la crescita economica di un Paese influenzi realmente il benessere della società, ed evidenzia come l'elemento centrale per essere felici non sia la ricchezza, ma la fiducia: fiducia nelle istituzioni, nelle leggi e in tutto quello che rappresenta il proprio Paese. Ecco allora Danimarca, Finlandia e Svezia al top nella classifica dei popoli più felici, mentre l'Italia è in coda insieme a Portogallo e Grecia.
Compito della classe dirigente è ristabilire una livello di fiducia adeguato dei cittadini con le istituzioni
Il secondo, la capacità di sperimentare, rappresenta per me l’elemento carismatico per il politico e l’amministratore.
La sperimentazione significa mettere in atto idee, pensiero.
La concretizzazione di formulazioni originali, innovative in una società sempre più spostata verso un economia della conoscenza e quindi mai prestabilita nei tempi lunghi. Per uscire dall’astrattezza faccio un esempio passato:l’unico vero piano del traffico a Livorno di 20 ani fa. Questo l’elemento carismatico dell’allora assessore al traffico. Per il futuro penso che il tema dell’immigrazione e l’impatto dirompente, sconosciuto nel tempo ma sicuramente reale è il campo per sperimentare pensieri nuovi,sprigionare proposte originali e condivise, ma improcrastinabili per il mantenimento della coesione sociale delle realtà territoriali
Nei limiti e nella consapevolezza che tali argomenti meritano altri approfondimenti credo che una siffatta valorizzazione del tema delle classi dirigenti risponda al primo punto che “Incontriamoci” ha proposto:”Costruire il profilo politico-culturale del P.D.”
Un saluto, Paolo Natale

Un contributo di Ruggero Morelli

Sono contento che ‘INCONTRIAMOCI’ abbia ripreso l’attività e mi piace l’impostazione che tratteggiato Frontera.
Da sempre i partiti con le sezioni -oggi circoli- non possono soddisfare tutta la necessità di discussione politica ed attività ‘culturale’.
Quindi, come anticamente l’Arci sopperiva a questo per PCI, oggi anche INCONTRIAMOCI può svolgere un ruolo, proprio perché libera da scadenze di tesseramenti, feste, organizzazioni per elezioni ecc..
Infatti si avverte il bisogno di momenti di discussione che superino l’ambito del circolo territoriale; avete annunciato una iniziativa sull’immigrazione – bene, spero che ne potremo organizzare una sulla P.A. ed una sul fisco.
Suggerisco di valutare bene la proposta di ricercare i votanti del nostro circolo di anni 18-30 e vedere quanti si sono iscritti al pd per chiamarli a partecipare e per promuovere delle iniziative con loro su temi di interesse del circolo.
Quindi spero in lavori che portino a proposte nette e chiare su pochi temi e che siano tali da risvegliare anche l’attenzione dei più giovani(esempio costi delle politica); altrimenti non costruiremo bene per il futuro ma per una stentata sopravvivenza ancora per qualche anno.
Sul punto condivido lo spunto di Graziani sulla diversa attenzione-linguaggio dei nostri figli- un buon regista ci potrebbe aiutare a mettere in luce le nostre carenze .
Condivido anche la ‘critica’ del primo intervento circa l’uso della posta elettronica ed altri mezzi per comunicare meglio; il sito del PD di Livorno è fermo dal 14 aprile; meglio quello del PD della Toscana che propone qualche comunicato.
Di passaggio cito il caso di Rosignano del quale non sono riuscito a sapere niente, nonostante anche una lettera mail alla segreteria, delle posizioni interne del PD.
Mentre sono certo che ci sono state varie riunioni sul tema; ed altrettanto per la denuncia-esposto di Piccini alla magistratura con l’evidenza di lettere di membri di Forza Italia sulle quali una attenzione è doverosa.
Sulle primarie mi piacerebbe che il PD si aprisse per tempo ai possibili candidati e invitasse a presentare anche autocandidature con relativo curriculum e proposta di programma ; si potrebbe pensare ad una sorta di registro dove inserire le schede che saranno poi a disposizione di tutti per le scelte.



martedì 27 maggio 2008

La sinistra e le crisi politiche

La Repubblica
26 maggio 2008, pag. 23
di Massimo L. Salvadori
Nella storia politica dello Stato unitario a partire dal primo dopoguerra campeggiano quattro date: il 1924, il 1948, il 1994 e il 2008, che traggono il loro significato dall’aver chiuso dei cicli politici e dall’averne aperti altri.
Ci si chiederà che cosa queste date abbiano in comune. Orbene esse, nella pur grande diversità delle situazioni storiche in cui si collocano, indicano tutte svolte cruciali caratterizzate da inequivocabili sconfitte della sinistra italiana, le quali, posto fine a periodi di transizione, hanno segnato la vittoria dei partiti moderati o di destra o della loro combinazione. Ed è da notare come ciascuna di queste tappe sia stata preceduta da forti iniziative della sinistra (o quanto meno dei soggetti collocati a sinistra di quelli moderati e di destra) che, non avendo trovato uno sbocco strategico, hanno apertola strada al successo dei movimenti in controtendenza. Potremmo addirittura partire dalla considerazione che già il 1860 aveva chiuso il ciclo risorgimentale con ìl sopravvento del moderatismo monarchico sulla democrazia repubblicana.

La regola che pare emergere è che quando una formula di potere è entrata in crisi, la sinistra italiana è andata all’attacco, ma è stata infine sempre respinta da prevalenti- chiamiamole così - "ondate di riflusso" per una ricorrente incapacità di offrire "sintesi" accettate dalla maggioranza della società nazionale. Nel primo dopoguerra, confortati dal grande successo elettorale del 1919, fl socialismo massimalista e if comunismo bolscevizzanti, messo ai margini il socialismo riformista, interpretarono la situazione come fine del capitalismo e della borghesia, ma il 1924 sancì la loro definitiva disfatta in pieno corso fin dal 1921 e l’inizio del potere totalitario da parte del nazionalfascismo. Il 1948 con la clamorosa sconfitta dei socialcomunisti, assestati sulla sponda del filosovietismo e decisamente avversi alla socialdemocrazia, sanzionò la chiusura del ciclo aperto dalla Resistenza e dall’unità antifascista. Tra i1 1948 e la fine degli anni ‘80 si collocano i due spettacolari risultati elettorali ottenuti dal Partito comunista nel 1976 e nel 1984, il cui significato fu duplice: da un lato essi, in via negativa, indicarono la capacità dell’opposizione comunista di raccogliere la protesta causata dalle gravi insufficienze delle forze di governo, dall’altro mostrarono appieno come i comunisti, logorati prima dall’inconcludente linea eurocomunista e poi dall’altrettanto inefficace linea dell’alternativa democratica", non fossero in grado di dare una prospettiva positiva al consenso ottenuto. Ma veniamo ai tempi più vicini a noi.

Tra il 1989 e il 1994 il sistema partitico crollò e tutte le carte furono rimescolate, anzi cambiate sotto la spinta provocata dalla fine di un’e poca storica anche a livello internazionale e dall’urto dirompente di Tangentopoli. I partiti che avevano occupato la scena dopo il 1945 scomparvero. Erano finite: per la De la rendita "antisovietica"; per la sinistra maggioritaria, la rendita - ormai profondamente erosa ma non esaurita, e che aveva trovato la sua ultima espressione in Berlinguer - dell’approdo ad una "società alternativa"; per il Psi craxiano la rendita, rivelatasi in prospettiva poco redditizia, del "nuovo riformismo"; perla destra neofascista la rendita dell"‘anticomunismo nazionale". E si fecero avanti le "forze nuove" rappresentate prima dalla Lega e poi nel 1994 dal rassembleinent messo in corsa da Berlusconi. Una sinistra usurata in ogni sua componente - divisa tra le due minoranze dei socialisti allo sbando e dei nostalgici di un comunismo in bancarotta e una maggioranza che non sapeva bene che fare di se stessa- non aveva strumenti per assumere la guida del riassestamento. Sicché a chiudere il ciclo alle elezioni del 1994 furono il Polo della Libertà e il Polo del buon governo, costituiti da Forza Italia, dalla Lega e da Alleanza Nazionale.

Ed ora eccoci all’ultimo ciclo: quello che dal 1994 arriva al 2008. Sono stati gli anni lunghi di una faticosa transizione che ha caratterizzato la cosiddetta Seconda Repubblica, incerti per il loro possibile approdo e per la natura degli schieramenti - una volta caduti i sistemi politici bloccati - in competizione perla direzione del paese. Sono stati gli anni dell’alternanza: due governi di centrodestra - due di centrosinistra. Ma dei due schieramenti l’uno si è fatto a mano a mano più solido, l’altro assai meno; l’uno, pur non senza tensioni, ha visto la sostanziale intesa tra i partiti dì Berlusconi, Bossi e Fini, l’altro è apparso un’alleanza non solo molto composita, ma anche posta sotto ricorrenti minacce di scomposizione e fratture cui hanno fatto seguito fatti concreti; l’uno ha avuto nel Cavaliere il suo leader riconosciuto e dotato dì un’adeguata autorità, l’altro si è affidato in primo luogo a un Prodi arroccato in una posizione debole di "re polacco", sfidato continuamente e in maniera ora aperta ora strisciante da altri leader, impossibilitato a durare a sufficienza per attuare ì propri programmi, sfibrato dai contrasti sia tra le diverse anime di una sinistra in riflusso e in crisi di identità, sia tra le varie componenti della sinistra e quelle di ispirazione centrista.

La vittoria netta del centrodestra nell’aprile di quest’anno ha chiuso il ciclo apertosi nel 1994. L’ultima vittoria elettorale di Berlusconi si differenzia dalle precedenti non solo perla forte maggioranza ottenuta, ma soprattutto in relazione alle condizioni dei suoi avversari e ai risultati da essi ottenuti. I quali mostrano: un Partito democratico, ancor privo di una natura definita, fermato nel suo disegno strategico, la sinistra privata di un grande partito, la sinistra residua radicale e socialista spazzata via dal Parlamento. Quanto a lungo possa durare l’asse Berluscon-Bossi-Fini è incerto; per contro è certo che gli sconfitti del 2008- e qui risalta la chiusura di un ciclo - hanno definitivamente concluso una fase del loro passato mostrando di non avere le risorse per aprire essi da protagonisti quella successiva.

Gli eventi recenti confermano dunque il dato storico che le grandi crisi politiche italiane si sono sistematicamente chiuse in senso avverso alla sinistra e alle sue varie reincarnazioni, fattesi a questo punto quanto mai nebulose. I temi di riflessione non mancano.

domenica 25 maggio 2008

domenica 25 maggio 2008

Dove sta il progetto per Livorno?
Da "Il Corriere di Livorno"
Come disse Martin Luther King: “Iniziamo a morire il giorno in cui diventiamo indifferenti”. Livorno non è sempre stata così e continuare ad essere indifferenti al declino e, di contro, alla proposta di ricette e rimedi casuali e di fatto strutturalmente inefficaci significa solo dare la spinta finale nella discesa. Mi riferisco in particolare alle analisi recenti del Prof. Massimo Paoli espresse pubblicamente e che in gran parte condivido.Il problema fondamentale? Quello di cui molti sembrano non voler esplicitare del tutto ma che sta in un assunto quasi banale: la mancanza di un progetto e di progettualità. A tutti i livelli. La mancanza di una “governance” che tradotto significa che la politica non sta presidiando nessuna “vision”, né a medio né a lungo ternine. Manca il progetto politico, il progetto di sviluppo economico, il progetto sociale. Livorno soffre del male peggiore che si possa augurare cioè quello del “non fare” (peggio del “fare male”) e di chi vive nell’attesa di qualche segno dall’esterno e si ritrova poi, di fatto, a gestire fenomeni ed eventi in modo casuale. E’ così ormai da almeno dieci anni e noi, imperterriti nell’immobilismo, stiamo tutti continuando su questa strada passando il tempo, per cosi dire, a sviluppare dibattiti di basso respiro e, alla prova dei fatti, senza concludere gran ché in termini di prospettive di sviluppo solide nel futuro.A livello politico il grande evento, portatore ancora oggi di una grande dose di fiducia e speranza, è stato sicuramente quello della nascita del Partito Democratico. Una grande occasione per provare ad invertire la rotta e a porre una condizione di progettualità di soluzioni e proposte per un territorio, com’è ruolo di un partito politico, sulla base della partecipazione come elemento fondante e strutturale. Tutto ok, anche se poi molte riserve sono venute fuori all’atto pratico, da molti me compreso, per un eccessivo dirigismo ed una massiccia dose di pura cooptazione in varie fasi. Ma mettiamo per ora da parte questo aspetto e parliamo di progetto politico. Una malelingua qualunque, osservando di sfuggita le cose livornesi, non potrebbe far a meno di notare oggettivamente due cose. La prima è che il PD, il partito che raccoglie tutta la classe dirigente e il “potere” di Livorno è di fatto la fotocopia dei vecchi DS, sia nello “stile” che nei nomi del “ponte di comando”. Quindi ci si chiede dove si possa intravedere il valore aggiunto di una fusione e dove sia la vera novità. Le domande al momento rimangono aperte. La seconda cosa è la mancanza di una proposta nei partiti e nel PD. Si discute di organizzazione, anche in modo legittimo, di primarie, tutto bello. Ma la proposta, il “Progetto per Livorno” per i prossimi cinque-dieci anni dove sta? Non dovrebbe essere la prima cosa su cui poi impostare una seria discussione? La paura è che in questo periodo di campagna elettorale per le amministrative, come al solito, sia semplicemente partita la (povera) caccia ai posti fine a se stessa e che al momento sia più importante scannarsi sui nomi e sugli organigrammi e non già sui programmi, che ad oggi non sono ancora usciti fuori.No, io non ci sto. Non ci sto a vivere nel paradosso continuo di una città che non è sempre stata così e vanterebbe tuttora un potenziale altissimo di crescita e sviluppo. Non ci sto, a proposito di “dirigismo alla livornese”, a sentirmi suddito e a dover aspettare che qualcuno mi dica come comportarmi per “rispettare gli equilibri” mentre intorno il contesto diventa sempre più degradato. Non ci sto perché è un comportamento stupido, non fa parte della cultura politica da cui provengo e, fra l’altro, non è il motivo per il quale mi sto impegnando nel PD anzi esattamente il contrario. La prima e urgente domanda, rivolta a tutti e non solo ad una parte politica quindi rimane: “Dov’è il progetto per Livorno?” Soprattutto su questo e non solo sui nomi si dovrà giocare la vera partita elettorale.
Daniele Bettinetti

I TRE PUNTI DI INCONTRIAMOCI.


Premessa
La sconfitta elettorale di aprile impone riflessioni approfondite sulle cause e sulle conseguenze della vasta affermazione del centrodestra.
In pari tempo impone anche il rilancio del Partito democratico, che resta la vera novità della politica italiana che ha saputo attrarre la fiducia e la speranza di milioni di cittadini.
Per chi credeva e crede nel progetto del Pd, questo è il momento dell’umiltà, ma anche dell’entusiasmo, più importante adesso che non nei bagni di folla della campagna elettorale. In poche parole, c’è da tirarsi su le maniche e lavorare, per costruire compiutamente il Pd, svolgere un’azione di efficace opposizione e preparare le future vittorie.
Per questo, nel PD c’è bisogno, oggi , di idee chiare, di unità di intenti e di responsabilità.
Quello di Incontriamoci vuole essere ed è un contributo in tal senso.

COSTRUIRE IL PROFILO POLITICO-CULTURALE DEL PD

Si è avvertita, in campagna elettorale, la mancanza di un’identità forte del Pd, che sapesse, al di là degli slogan e delle proposte programmatiche, scolpire nell’immaginazione dei cittadini una prospettiva politica chiara. Non c’era tempo, si è detto. Ma adesso c’è e sarebbe un grave errore aspettare che questa identità cali dall’alto, anche se la sua maturazione non può certo avvenire in un singolo territorio. L’approccio giusto è lavorare in questa direzione attivamente in ogni realtà, senza titubanze. Anche perché quella che è iniziata con la formazione del nuovo governo Berlusconi è una fase che corre velocemente verso un riposizionamento delle identità politiche, che non ricalcheranno quelle delle precedenti legislature.
Un partito grande, plurale, frutto dell’incontro di diverse culture, ha più di altri bisogno di costruire, in modo efficace e diffuso, una riconoscibilità e una nuova identità. Non servono però i vecchi metodi, tipo “particolarità-che-trovano-sbocco-in-una-sintesi”. Per un partito davvero nuovo, occorrono anche metodi nuovi. Proprio per questo il rapporto centro-periferia va completamente ripensato, dando contenuto all’idea di partito federale, che non significa partito suddiviso per tanti staterelli regionali, ma partito articolato, per temi e potenzialità caratteristici dei diversi territori.
Definire il PD come il Partito Riformista è riduttivo. Il riformismo in Italia è sempre stato minoritario e di recente non ha fornito prove brillanti, né nella versione craxiana, né in quella prodiana. E’ importante inserire la nostra ricerca nel contesto europeo, e cercare di capire le varie caratteristiche di esperienze di “riformismo vincente": pensiamo a Zapatero e al suo “Socialismo dei cittadini”, originale mix di tradizione socialista e modernizzazione laica e liberale, all’esperienza, peraltro ormai in fase calante, del New Labour di Blair o al Nuovo Centro della SPD tedesca.
Dibattito, ricerca, cultura, apertura: il futuro del Pd passa di qui, al centro, come sui territori.

COSTRUIRE IL RADICAMENTO TERRITORIALE DEL PD

Se vogliamo un partito forte, dobbiamo lavorare ad un suo radicamento nel territorio. Questo riguarda in particolare il Nord, per i noti problemi, ma in generale tutto il paese. Si tratta di una scelta particolarmente sentita in Toscana, dove i partiti fondatori (Ds e Margherita) avevano un radicamento significativo, che, tuttavia, si era fortemente indebolito tra i giovani e in larghi strati popolari. Bisogna però intendersi. Se i Circoli, l’unità organizzativa di base, saranno confinati nella dimensione del quartiere, se ne deprimeranno le potenzialità già grandi dimostrate in questi pochi mesi. I Circoli devono stare sì a stretto contatto con gli abitanti di un quartiere e capirne i problemi, ma non occuparsi solamente dei problemi di quel quartiere. Questa sarebbe una ridicola caricatura del radicamento, che per una forza politica non significa politica di cortile, ma vicinanza attiva ai problemi della gente. E, senza nulla togliere all’importanza dei problemi del quartiere, la dimensione più propria della partecipazione politica, dall’antica Grecia ai Comuni medievali, fino ai moderni Diritti di Cittadinanza, è quella della città. Costruire il radicamento vuol dire quindi essere presenti con iniziative e proposte sui problemi della città. Ne discende un metodo di lavoro basato sull’autonomia dei Circoli, ma anche sulla moltiplicazione di iniziative, promosse da o con i Circoli, di valenza cittadina.


COSTRUIRE UN PARTITO DEMOCRATICO “democratico”.

La democrazia è il valore del PD. Un valore etico e politico, ma anche sociale ed economico, perché basa lo sviluppo sulla condivisione e sulla coesione. Il compimento della democrazia e la piena realizzazione della Costituzione repubblicana sono l’idea di modernità che il PD rappresenta, una modernità solidale, partecipe, consapevole, responsabile, in antitesi ad una modernità solo mercantilista, egoista, irresponsabile verso il bene comune.
Ma anche nel suo modo di essere il PD deve rappresentare questo modello. Ed è bene dirselo, fino ad ora non ci siamo. Decisioni calate dall’alto, motivate in modo confuso, liste di candidati discusse tra pochi intimi e forse spartite per correnti ufficialmente non esistenti, ma di fatto operanti, percorsi costituenti tortuosi. Erano i primi passi, la sfida elettorale ci ha trovato impreparati. Ma ora sentiamo come indispensabili alcune correzioni:

  • Primarie sempre per scegliere i candidati a cariche elettive di ogni tipo. Rendere ordinario questo metodo ne valorizza il significato innovativo ed in pari tempo, ne sdrammatizza le implicazioni. Primarie vere, non pilotate, tra aderenti al PD ai quali il partito riconosce pari dignità e pari opportunità.
  • Rinnovamento, generazionale, di genere, ma soprattutto di idee, nei gruppi dirigenti
  • Riconoscimento del pluralismo negli organismi di partito, come ricchezza del partito.
  • Gli organismi esecutivi devono essere omogenei, per la loro massima efficacia, mentre gli organismi di direzione politica devono essere elettivi ed aperti e promuovere il confronto al loro interno di opzioni diverse, perché solo dal confronto nascono le migliori soluzioni.
  • La vita interna deve rispettare e includere, non escludere o allontanare le presenze ritenute scomode. Abbiamo fatto il PD perché vogliamo un partito senza correnti di potere, senza padroni e senza veti e barriere.

E’ questo il partito che vogliamo costruire.


22 maggio 2008

giovedì 22 maggio 2008

Incontro con Marco Ruggeri


Click sull'immagine per ingrandire

L'AMACA

Michele Serra

La nascita del Pd non è bastata a distogliere la sinistra nel suo complesso (politici, intellettuali, elettori partecipi) dalla sua vecchia e perniciosa passione: dilaniarsi attorno a due ruoli evidentemente incompatibili, quello di studiare da classe dirigente e quello di sentirsi coscienza critica del paese. Ci si divide e si litiga più o meno come prima, come sempre, tra fautori del dialogo istituzionale e "mai con Berlusconi", tra "morbidi" e "duri", tra disponibili e "mai con Tremonti". Ogni passo in qua o in là è apprezzato o malvisto a seconda di chi lo giudica, fioccano dichiarazioni infocate e articoli di giornale contro i "collaborazionisti" o contro gli intransigenti. Ricevo appassionate lettere - nel mio piccolo - equamente divise tra coloro che odiano il dialogo e coloro che odiano chi odia il dialogo. Nel mezzo, niente. Nel frattempo la destra lavora, certo favorita dall´insormontabile primato personale del suo leader-proprietario, certo avvantaggiata da una propensione meno spiccata per il famoso "dibattito", croce e delizia della sinistra. Un pragmatismo a volte rude, a volte rozzo, è il vero, palese vantaggio di una parte politica meno dialettica, meno pensosa, anche meno democratica. Ma di dibattito si può anche morire, specie se dura più o meno dalla discussione attorno alla Comune di Parigi.
=

sabato 17 maggio 2008

Usciamo un po' dallo schema martirio/persecuzione..........

Sergio Nieri sul sito www.alleo.it ha pubblicato questo interessante articolo

L'aspro confronto fra Travaglio e D'Avanzo su La Repubblica di questi giorni potrebbe suscitare sconcerto specie tra gli appassionati lettori e sostenitori di questi due ottimi cronisti,se non fosse la conseguenza pressochè naturale di una transizione politica e culturale nella quale siamo un po' tutti coinvolti.In questo senso la prematura fine del Governo Prodi (con le contraddizioni più volte evidenziate e la kafkiana polarizzazione Mastella Di Pietro) e il vischioso avvio della cosiddetta legislatura costituente (con Veltroni disponibile e lo stesso Di Pietro riposizionato sul terreno di una generica intransigenza) hanno rappresentato quel cambiamento di scenario su cui insistono "i fatti" di Travaglio e i noti teoremi di D'Avanzo (non ultimo,quello relativo a una non meglio identificata nuova P2). Semplificando si potrebbe dire che Travaglio enuncia in modo scrupoloso fatti che aiutano a comporre il quadro di un sistema di potere in sè legittimo, ma costantemente a rischio di episodi corruttivi o di contiguità mafiosa, mentre D'Avanzo, assai prima di teorizzare "agenzie del risentimento" in servizio permanente effettivo, ha spesso posto la sua attenzione sulla effettiva reputazione democratica di alcuni organi dello Stato e, nella specie, dei cosiddetti corpi separati (servizi segreti in primis) nello sviluppo di trent'anni e più di storia repubblicana. Quella storia che, al pari di quella ricomposta da Travaglio, viene normalmente dimenticata dai megafoni televisivi o seppellita da un numero incalcolabile di omissis.In questo percorso giornalistico Travaglio incontra un limite obiettivo in una visione pan-penalistica della politica nazionale che, al di là delle sue ottime intenzioni, risulta oggettivamente indebolita, per esempio dal "fatto" che nessun pm abbia mai contestato (fino a questo momento) il concorso esterno in associazione mafiosa all'attuale presidente del Senato in relazione alla frequentazioni di Mandalà. Pare fondato il richiamo "morale" a quella inopportuna convenzione tra l'avv. Schifani e la cosca mafiosa, ma modestamente mi pongo il problema se di tutto questo da ormai una decina d'anni se ne debbano fare carico i soli Travaglio e Gomez con gli strumenti che hanno a disposizione. Con l'uomo partito Di Pietro e Mangiafuoco Grillo a fare le sponde. Come può lo stupore di fronte ai fatti narrati da Travaglio evolvere in indignazione razionale e quest'ultima tradursi in una opportunità di resistenza civile e democratica di fronte allo strapotere dell'Uomo di Arcore?Allo stesso modo, come può lo stupore generato dalle ricostruzioni di D'Avanzo, che spesso attribuiscono alla Destra Fascista la capacità storica di condizionare in chiave affaristico criminale il sistema dei poteri democratici, tradursi nell'indignazione morale e operativa verso una deriva politica che ha legittimato le investiture di Fini, Schifani e del buon Alemanno al Campidoglio? Stupirsi di tutto questo (e magari riderci sopra) continua a essere un ottimo esercizio per l'umore collettivo, ma temo che alla lunga (si parli dei "fatti" di Marco o dei "complotti" di Giuseppe) nella transazione pragmatica di oggi (dove non tutto è chiaro all'interno della stessa Magistratura, l'organo più sollecitato da entrambi) si corra il pericolo del "colore" o della appagante affabulazione. Con il rischio incombente che a fare le spese di tutto questo sia la credibilità di entrambi, bene o male chiamati dai rispettivi riferimenti (Di Pietro il primo, il gruppo editoriale l'Espresso l'altro) a svolgere un ruolo significativo di opinion makers nella transazione infinita (e oggi bipartisan) della politica italiana.
[17 maggio 2008]





venerdì 16 maggio 2008

Primarie vere, primarie sempre!




Qualche volta, per cambiare le cose, è necessario fare scelte nette, che non lascino aperta la porta a cavilli spesso utilizzati da chi si oppone al cambiamento.

È con questo spirito che, sul circolo online Barack Obama, è nata la campagna "Primarie vere, primarie sempre!", da poco lanciata attraverso il sito www.primariesempre.org.

Sì può dare la propria adesione personalmente, diffondendere l'iniziativa, o proporre al proprio circolo territoriale di adottare il documento della campagna
Noi abbiamo aderito.

giovedì 15 maggio 2008

martedì 13 maggio 2008

giovedì 8 maggio 2008

APOTI

Noi potremmo chiamarci la Congregazione degli Apoti, di "coloro che non le bevono", tanto non solo l'abitudine ma la generale volontà di berle è evidente e manifesta ovunque. (Giuseppe Prezzolini)

Mi è stato detto qualche giorno fa: "Via, Daniela, anche te le bevi tutte! " Bene, ho riflettuto molto, ho cercato di capire se poteva essere vera questa affermazione, anche se detta con un pò di sfottò.
Stiamo vivendo una situazione politica e sociale davvero complessa; i messaggi che riceviamo sono spesso così semplici e semplificati, ma anche mistificanti e mistificatori per il lessico e il linguaggio solo apparentemente innovativo e nuovo, spesso usato strumentalmente, in modo evocativo di sentimenti, emozioni, ricordi e, ancora più spesso, con un uso disinvoltamente improprio.
Per chiarire ciò che voglio dire, faccio un esempio della nostra storia recente: il 14 ottobre 2007 abbiamo chiamato primarie quella che è stata l'elezione del Segretario del PD; è stato un grande, importante momento di partecipazione per l' elezione definitiva del Segretario del PD. La novità di per sè c'era: eleggere il segretario di un grande partito, facendo votare i cittadini e le cittadine comuni e non solo gli iscritti; una vera grande novità. Allora perchè le abbiamo chiamate Primarie ? Perchè questa mistificazione in cui tutti siamo caduti?
Si è trattato di ingenuità o ignoranza?Astuzia od opportunismo? Diciamo che, nel timore che il successo del 2005 non si ripetesse, è stato deciso di sfruttare il termine che più corrispondeva alla spinta e al bisogno di innovazione e di novità nella politica italiana.
E tutti ci siamo adeguati, tanto è ormai d’uso comune utilizzare i termini, le parole al di là del loro vero significato, pur di sfruttare la reazione emozionale che possono suscitare.
Eppure, la continua mistificazione è proprio uno dei peggiori difetti della politica vecchio stile, uno di quei comportamenti che più danno decisamente fastidio agli elettori ed elettrici.
Questo fin troppo frequente voler far passare tutto per quello che non è, facendo uso di meccanismi che travisano la realtà, la confondono con le “altre realtà”, create ad arte, fino a rendere impossibile capire qual’è quella vera. Una mistificazione adottata sempre più spesso negli ultimi anni, con l’arroganza e la tracotanza di chi sa che, dopotutto, non è attaccabile. Beh, tutto questo ha decisamente stufato gli italiani.
Le Primarie - lo sanno tutti ormai - le vediamo svolgersi negli USA in questi giorni, sono una forma di elezione per determinare a chi, tra tutti coloro che aspirano a rappresentare una lista, sarà affidata la singola candidatura.
E allora? Perché un partito nuovo, nato con la dichiarata intenzione di voler essere un grande passo in avanti nella politica italiana, non dovrebbe credere in se stesso e nel suo messaggio e sentirsi costretto a far un uso solo improprio e mistificatorio del termine “primarie” , inventandosi addirittura le Primariette, raggiungendo davvero l'apice dell'ipocrisia !
Le PRIMARIE siano quello che sono: non ne sciupiamo la freschezza e la forza innovativa, facciamo in modo che siano uno strumento DEMOcratico, sotto forma di VERE PRIMARIE APERTE, così come i cittadini propongono, sempre e comunque, senza se e senza ma, senza rinvii e titubanze, ogni volta che c'è da eleggere qualcuno ad una carica .
E' un’opportunità che il PD non può e non deve perdere.
PRIMARIE “democratiche” senza rinvii inutili .
La Democrazia non ci può spaventare; non ascoltare ancora questa esigenza può rivelarsi un errore fatale, lo abbiamo toccato con mano nelle recenti elezioni amministrative a Roma e in Toscana.
Riprendo il termine “apoti” (a privativa, e verbo greco che significa bere), coniato da Giuseppe Prezzolini.
Appartenere alla “resistenza” ,oggi, implica cercare di non farsela dare a bere , non essere disposti a ingoiare tutto.
Significa il più delle volte navigare, dolcemente, contro corrente; non lasciarsi intruppare; non prendere sul serio chi, impettito e serioso, si impanca a dare lezione; rifiutare il consenso organizzato; non unirsi al coro degli yes men o women, significa spesso produrre una nota stonata, stridente .
Uomini e donne che si fidano più dei propri dubbi che delle facili certezze .
Essere “apoti” significa, in fondo, non aver paura della solitudine, gustare lo stare appartati rispetto al gregge, annusando non il vento che tira, ma l’aria inebriante della libertà.
Daniela Miele

Ancora interessanti cotributi

Ho vissuto un’altra stagione alla ricerca dell’unità alla ricerca di una lettura non ideologica della realtà e per impostare strategie funzionali a progetti che nel tempo consentissero ai lavoratori, alle lavoratrici e al Paese tutto di lanciarsi costruttivamente verso il futuro. Erano gli anni '70. Spingemmo decisamente in molti, ma non fu sufficiente. Troppi muri sollevati in nome di identità che, nonostante etichette e timbri, erano sempre meno definite.
Anche in quel caso ci furono ‘caminetti’, ‘guastatori d’assalto’, ‘punte avanzate’. Ma mancò la volontà di alcuni gruppi ‘forti’ - di varia colorazione d’origine e partitica - per poter procedere. Il partito Democratico potrà veramente crescere quando quegli stessi gruppi riusciranno a non avvilupparsi su se stessi, immobilizzandosi e costringendo all’immobilismo i compagni di viaggio; all’interno del partito e quelli che all’esterno di esso hanno bisogno del suo supporto per tentare il raggiungimento di un qualche obiettivo condiviso. Ha poco rilievo che questi ultimi siano dentro l’area liberal di Centro, ancora da amalgamare e ripulire da cascami vari) o dentro una sinistra tutta da reinventare.
«Se sono malato non faccio un sondaggio fra i miei amici per sapere come curarmi, ma vado da un medico, e magari dallo specialista che ne sa, sulla mia malattia, più di chiunque altro, e il suo parere, il parere di una sola persona, conta per me più di quello delle moltitudini.» Perché uomini o donne democraticamente selezionati (tra candidature diverse) e rappresentativi (quindi in linea di principio capaci di curare), dovrebbero non essere lo specialista della cosa pubblica? Si vuole insistere sulla strategia (fallimentare sul piano della partecipazione ed il coinvolgimento) del ‘comandante in capo’, capace di tutto risolvere? Certo si ha un chiaro conflitto funzionale tra partecipazione e capacità gestionale, ma un equilibrio calibrato può e deve essere trovato - se si vuole che la democrazia non si riduca ad un momento e ad una parola. Qualcuno dice che il suffragio universale è solo metà della democrazia; l’altra metà è la professionalità politica. Ne convengo. Solo se i cittadini sono messi in condizione di sapere e capire quel che fanno, il loro voto ha un significato autenticamente democratico, la loro capacità di proposta e consenso non è ridotta a un fatto solo formale. Altrimenti, qualunque imbonitore (capace ed attrezzato per organizzare il consenso) può averla vinta.
Dice Claudio: « Nella breve e forsennata campagna elettorale nelle centodieci province italiane, Veltroni ha fatto il quasi-miracolo di conquistare la fiducia di un italiano su tre verso un partito nuovo» che ha cercato di compattarsi e ignorare (al momento) le proprie diversità. «Scommessa e promessa sincera di novità e modernità.» Sono d’accordo: «occorre continuare e andare avanti.» Ma a livello nazionale, come a livello locale, si corre il rischio di perdere il ‘nuovo’ condiviso se ci si impantana nelle oligarchie (non è l’età che le determina, ma la voglia della gestione del potere fine a se stessa, il fare del potere il fine e non lo strumento al servizio di un progetto). I ‘caminetti’ possono essere uno strumento. Ma uno strumento non è di per sé buono o cattivo, dipende da come lo si usa o come lo si lascia usare se si è in una realtà organizzata. Sono da sempre convinto (e l’esperienza me lo ha più volte confermato) che la tentazione dell’agorà come unico strumento di democrazia - o se preferite l’assemblearismo - mostra ampiamente i suoi limiti, ad ogni livello e che le ‘primariette’ troppo spesso sono un “pannicello di acqua calda su una gamba di legno”. Ne discende che deve essere organizzata una concatenazione rappresentativa che ponga limiti di controllo e autonomia progettuale, che si deve in parallelo alimentare l’autonomia progettuale e decisionale settoriale come permanente elemento di verifica della nostra azione che si rivolge non a questo o quello ma a tutti i cittadini, qualsiasi sia il loro ruolo nella società. Non è stato fatto (per colpa dei tempi o delle oligarchie, poco importa!) e questo fa sbucare i ‘caminetti’ di cui ora si parla. Deve essere cambiato registro, approfittando dei tempi che ci offre la sconfitta quantitativa (ma non qualitativa). Alla svelta. A Roma come a Livorno.
Ettore Bettinetti
Carissima,
rispondo con ritardo alla tua sollecitazione e ti ringrazio innanzitutto di farlo, di stimolarmi, perchè come tutti credo, sono frastornata e anche avvilita.
Quanto all'articolo in questione, lo condivido in pieno: se, in un certo passaggio, dopo le primarie, servivano i capi storici a prendere in mano i fili del consenso, ora mi sembra che ci voglia del "materno", lasciare spazio a giovani generazioni, a nuove rappresentanze "competenti", che siano in grado di dare voce a bisogni non ascoltati durante la campagna elettorale, di fare proposte "positive", di sviluppo, di svolta!!!
Basta rincorrere paure e razzismi, sì invece ad ascolto, a collaborazioni "intelligenti", alla centralità del lavoro e alla laicità, temi che mi sono rimasti strozzati in gola, sì a dialogo serrato su temi veri: salario, rappresentanze, regole, diritti, integrazione, promozione di fasce sociali trascurate dagli interessi emergenti, sì a società istituzionale in grado di intercettare esigenze e trasformarle in servizi.
Un abbraccio e buon lavoro
Adriana
Bene, ‘non si torna indietro’ come scrive Veltroni nel sito ufficiale del PD.
Ma si ascoltano quelli che avevano detto cose giuste e che non sono state accolte.
Si fa un'analisi a ritroso e, con spirito critico, si valorizza chi aveva perorato cause e metodi giusti. Ad esempio Vincenzi, Cacciari e Chiamparino che avevano per tempo messo in guardia circa la reale autonomia dei territori del pd nascente.
Si prendano in esame alcune decisioni a mio parere errate e si corregga il tiro.
Tento un breve elenco.
  • La mancata richiesta a Bassolino e Jervolino di dimettersi.
  • Il segnale sulle donne del tutto insufficiente.
  • L'accordo con i radicali che ha fatto allontanare alcuni della margherita.
  • Sulla sicurezza non si è detto ad esempio che le varie forze di polizia(carabinieri,polizia di stato, Guardia di Finanza, ferroviaria, ecc.ecc.) andavano 'ristrutturate' , ridotte nel numero e nelle gerarchie, con risparmi notevoli, mantenendo gli addetti con compiti integrati.
  • Sulla giustizia: la pena certa va bene, ma come ci si arriva? si può pensare a depenalizzare tutti i reati contravvenzionali e così liberare i giudici per i reati delitti. Sanzioni pecuniarie in molti casi più efficaci e sanzioni alternative.
  • Sulla casta istituzionale: province, comunità montane, consorzi di bonifica e circoscrizioni comunali si è detto poco e male, ora occorre procedere subito con le proposte Lanzillotta.
  • Sulle caste : ordini e tutti i numeri chiusi, bisogna proporre l'abolizione e sfidare i 'liberali'; e dire una parola chiara sui contributi ai giornali.
  • Le scelte dei candidati al caminetto di Roma
  • a nord il pd è debolissimo, come ci ha più volte ricordato Michele Salvati.
  • Ed infine si deve cercare di capire quanti giovani sono col pd e sono disposti a seguirlo; una verifica indispensabile per non spengerci velocemente.

Ruggero Morelli

mercoledì 7 maggio 2008

Approvo e apprezzo la disamina vista da una lente di grande conoscenza dei fenomeni sociali.
Al giorno d'oggi il livello di cultura generale è indubbiamente cresciuto,nonostante i fenomeni riconducibili a vanna marchi e alla costellazione di sedicenti maghi.
Però la ormai risaputa proprietà dei mezzi di comunicazione di massa devianti e di pessima qualità, nelle mani di Berlusconi permette di condizionare, con messaggi semplici ed efficaci, talvolta dozzinali, l'opinione di tanti cittadini.
Sicuramente i migliori intelletti sono riconducibili all'alveo del Centro sinistra però, la capacità di analisi, a volte buona, finisce con lo spegnersi nella speculazione più o meno filosofica e nell'autoreferenzialità.
Di conseguenza i destinatari spesso non riescono a recepire o addirittura sono annoiati, ancor prima di finire una lettura o un ascolto.
Dobbiamo avere la capacità di semplificare certi messaggi e renderli fruibili attraverso le nuove tecnologie ad un numero maggiore di persone.
La mancata risoluzione del conflitto d'interessi pone innanzi a noi problemi che forse sarebbero già in parte risolti.purtroppo anche la compagine amica si è nutrita di antiberlusconismo, nell'incapacità reale spesso voluta, di lanciare una vera contro offensiva culturale e programmatica,nonostante la parziale attenuante delle fibrillazioni impresse dalle prepotenti contraddizioni di una globalizzazione anarco capitalista,cavalcata con acume anche dall'avanzante capitalismo di stato.si è rimasti soavemente impantanati in un simulacro di società civile, retta da istituzioni democratiche perchè faceva comodo a tanti.dobbiamo ringraziare veltroni che come dice il prof. ha rivoluzionato il quadro.noi e solo noi, abbiamo la capacità,non per derivazione messianica,di risollevare il nostro paese ricreando un collante sociale legato ad una autoidentificazione collettiva, basata sui valori appunto di vera libertà, giustizia, etica della coerenza, sviluppo sostenibile,che faccia da contraltare ad un pervasivo nazionalpopulismo e territorial pseudosecessionismo populistico alimentato da coloro che poi risultano gli offerenti di una protezione che scaturisce in parte da una insicurezza più percepita che reale.
La certezza della pena deve valere per tutti indistintamente, a prescindere da razze o etnie.
Grazie per lo stimolante contributo
Massimiliano Cavaliere

martedì 6 maggio 2008

Riceviamo e pubblichiamo un importante contributo del Prof. Massimo Paoli

Forse per la prima volta nell’incerta e balbettante “seconda repubblica”, l’appuntamento elettorale è stato un’occasione per una svolta politica effettiva.
Non ci siamo abituati perciò ancora ci stropicciamo gli occhi. Finalmente un turno elettorale straordinario quasi “rivoluzionario”.
Il PD, costituendosi e decidendo di andare solo con l’Italia dei Valori al giudizio degli elettori, ha rivoluzionato il quadro politico e nonostante (paradossalmente anche grazie) ad una legge elettorale bizzarra, non democratica e incostituzionale ha posto le basi per una svolta politica generale che speriamo segni un punto di non ritorno e chissà metta le radici per una terza repubblica a democrazia finalmente compiuta.
Il PD è stato sconfitto, ma ha pagato molto cara la sua “giovinezza” ed un eccesso di burocratismo “bulgaro” nella scelta delle candidature. Il “popolo delle primarie”, infatti vuol contare, e se la nomenklatura prova metterlo da parte, allora o non andrà a votare o trasformerà le urne in primarie, anche fino all’estremo, basti pensare a cosa è accaduto a Roma nei quartieri tra i più a sinistra dell’urbe, come il Quadraro, la Garbatella o Cinecittà, dove 60-70mila cittadini (i tre quartieri insieme fanno gli abitanti dell’Umbria) hanno votato massicciamente PD alle politiche e alla provincia e altrettanto risolutamente scheda bianca o addirittura per la destra alle comunali.
Ma le ragioni della sconfitta sono anche nell’incapacità di leggere la trasformazione avvenuta in questi anni. L’elettorato ha mostrato con decisione tutta la profondità del cambiamento socio-economico e culturale che lo ha investito. Una trasformazione, anche solo rispetto al 2006, rilevante e articolata, come al solito interpretabile da diversi punti di vista, non tutti rassicuranti per un liberal come chi scrive (tra l’altro un liberal ossessionato dai ricorsi storici, giacché come diceva Mark Twain: la storia non si ripete, ma spesso si assomiglia).
L’Italia è cambiata infatti nella sua struttura e composizione sociale:

  • il lungo declino economico del paese che si è trasformato ormai in stagnazione vera e propria ha ridotto e di molto il peso dei ceti medi, ormai minoranza nella società ex-opulenta;
  • la perdita di peso dei ceti medi è sia verso l’alto, ma soprattutto verso il basso, ormai ne parliamo da tempo, la diminuzione del potere d’acquisto e quindi la contrazione del reddito disponibile reale (cioè quello misurabile in beni effettivi acquisibili non quello nominale in soldi) ha spinto molta parte dei ceti intermedi verso situazioni vicine all’indigenza (per carità una soglia moderna, non è fame, ma è di certo rinuncia).
    E’ cambiata nella psicologia di massa:
  • ancora una volta la “ploretarizzazione” dei ceti medi e la paura della miseria li ha spinti a destra, non a sinistra;
  • la paura della povertà, la più grande delle “insicurezze”, prende vari aspetti e prima o poi diventa richiesta di “protezione”, più che di sicurezze varie;
  • persino la mistica popolare suscitata anche con liturgie laiche (non importa se ora sembrino strampalate) da certe forze politiche, non a caso vincenti, ricorda la costruzione dell’idea di “volontà generale”, a sua volta cemento della “nuova” riaggregazione popolare, protettiva appunto perché contro il caos propone un nuovo ordine per un nuovo popolo (… la folla incomposta del "popolo" divenne, grazie a una mistica nazionale, un movimento di massa concorde nella fede dell'unità popolare… George Mosse).
    Il centrosinistra si è fatto cogliere impreparato o forse non è ancora attrezzato per intercettare questa domanda disperata e la sinistra antagonista, ancora saldamene legata a schemi interpretativi di stampo marxista-leninista, non è mai stata in grado di capirlo questo complesso fenomeno. E’ stato così nel 1919-1921 in Italia, è stato così solo un po’ più tardi durante la crisi economica della repubblica di Weimar in Germania.
    Anche i vincitori dovranno riflettere su questi cambiamenti, perché è a loro che gli italiani stanno chiedendo protezione Si tratterà di capire bene come rispondere, perché ci sono anche gli italiani che non hanno affatto chiesto questo, bensì sviluppo, apertura, giustizia e libertà.

Massimo Paoli

COSTRUIAMO IL NUOVO

La politica e la riflessione sul risultato elettorale sono i temi su cui si è aperta la seconda giornata del 23mo congresso delle Acli, che a Roma ha dato appuntamento a tutti i suoi associati fino al 4 maggio. Tanti interventi, tra cui quello particolarmente atteso di Walter Veltroni, leader del Partito Democratico.Veltroni, accolto da grande entusiasmo, dopo aver salutato il presidente delle Acli Andrea Olivero, al quale ha rinnovato la stima e l’apprezzamento, è voluto ripartire proprio dal rinnovato interesse della politica nei confronti delle associazioni e del terzo settore.
Il Partito Democratico, come ha spiegato Veltroni, innanzitutto dovrà lavorare insieme con le diverse opposizioni per costruire le condizioni di una convergenza. Chi ha vinto le elezioni deve tener conto di queste diverse opposizioni: "Chi interpreta il voto come un'onda che tutto travolge sbaglia sia perchè ci sarà una opposizione robusta sia perchè dimentica che il paese è diviso a metà visto che il 46% ha votato per altri e poi questa metà ha le sue articolazioni e soprattutto deve considerare che il 47% degli elettori non ha votato per chi poi sarà al governo". E’necessario avere un atteggiamento responsabile cercando il dialogo e aumentando le occasioni di incontro. Prima ancora il dialogo deve provenire dal territorio, per questo è fondamentale il radicamento e la collaborazione con i cittadini e con le varie associazioni presenti.“Il PD - ha dichiarato Veltroni – deve essere aperto alla società e radicato sul territorio valorizzando gli eletti negli Enti Locali e deve prendere le sue decisioni non facendo riferimento alle sedi e ai luoghi tradizionali”.Un’apertura fondamentale se si pensa alle tante contraddizioni che vive la società odierna, che per paura tenda a chiudersi. Per questo Veltroni immagina un partito aperto, moderno che trasforma se stesso con un maggiore radicamento nella società, dove a contare di più sono gli associati, le persone che credono come nel caso del grande successo delle Primarie del 14 ottobre scorso e gli oltre 3 milioni e mezzo di elettori, gli eletti stessi con il loro rapporto diretto con i cittadini. Un partito, come ha precisato, che studi nuove forme di comunicazione e si apra al dialogo con le forze organizzate della società. Proseguire la strada dell’innovazione, fortemente voluta dal PD è essenziale per Veltroni perché essa rappresenta la possibilità di dare quella risposta innovativa di cui la società ha bisogno in questo momento.“Solo se il PD continuerà sulla strada di forte innovazione riformista a vocazione maggioritaria – ha dichiarato nel corso del suo intervento - potrà costruire scenari di collaborazione anche più intensi.” L’idea di Veltroni è quella di una grande forza di centrosinistra non come prosecuzione della storia della sinistra ma come forza che rappresenti la possibilità di risposte innovative e moderne fondate su valori solidaristici. Una vocazione maggioritaria che non significa esclusività ma occasione per costruire alleanze.Alleanze per contribuire alla costruzione di una società solidale con valori condivisi che combatta i paradigmi attualmente in auge come il binomio ricchezza/povertà, a causa del quale aumentano le disuguaglianze, e poi l’insicurezza, il tema più devastante della società occidentale come ricorda lo stesso Veltroni, intesa come paura dell’altro, precarietà nel lavoro, insicurezza personale e sociale. Veltroni è convinto che il tema della sicurezza deve essere assunto dalle nostre culture solo come esse sanno fare e cioè impastando capacità di accoglienza , tutela e garanzie per i diritti dei singoli. Il PD in questo senso vuole contribuire per ricostruire un sistema economico e sociale, un sistema di sicurezza sociale e un sistema di valori condivisi attraverso l’accoglienza, la severità, il rispetto della legge e la tutela dei diritti.

lunedì 5 maggio 2008

MALEDETTO IL CAMINETTO


Nella breve e forsennata campagna elettorale nelle centodieci province italiane, Veltroni ha fatto il quasi-miracolo di conquistare la fiducia di un italiano su tre verso un partito nuovo, nato da pochi mesi, scommessa e promessa sincera di novità e modernità. Ha saputo accreditare il PD come forza politica di solide radici e di coraggioso avvenire, ha azzeccato linguaggio e programmi. Il risultato positivo, ma non esaltante del PD, ma soprattutto la bruciante distanza dal PDL, grande vincitore delle elezioni, con un distacco senza precedenti, sono la prova che anche molti errori sono stati commessi. Delle cose buone basti dire che occorre continuare e andare avanti. Degli errori è sgradevole fare l’elenco a posteriori, a parte trovare la matrice dalla quale molti di questi si dipanano.
Quando Veltroni è diventato leader del PD col consenso espresso di oltre tre milioni di cittadini-elettori (anche questo un fatto senza precedenti), ha considerato così forte il suo mandato da scongiurare di per sé il rischio di condizionamenti. Per neutralizzare spinte disgregatrici e sacche di dissenso sulle scelte politiche che si apprestava a fare, anziché strutturare un gruppo dirigente motivato, rappresentativo e coeso politicamente, ha ritenuto allora , secondo una logica, per così dire tradizionale, di tenere insieme il nuovo partito a cominciare dai leaders storici delle sue principali componenti (Ds e Margherita) e delle loro rispettive articolazioni (correnti). E’ nato così il metodo “del caminetto”, una consultazione informale, ma essenziale, dei vari leaders sulle scelte politiche e, in parte, anche sulle candidature.
Veltroni ha sopravvalutato l’importanza della condivisione dei capi, ha sottovalutato gli effetti negativi di questo metodo, e non ha ritenuto indispensabile il coinvolgimento partecipe dei milioni che volevano, col PD, fare un’esperienza politica di tipo nuovo. Sulle candidature non ci sono state le primarie. La scelta negativa è stata aggravata dalla motivazione (non c’è tempo) che è apparsa, oltre che inconsistente, irridente, e dal surrogato che è stato offerto, le “primariette”, penosa caricatura della partecipazione, nella quale tutti avevano diritto di proporre e nessuno il dovere di ascoltare. Niente è più lontano dal sentire del popolo del PD, che vedere, nel lontano loft, confrontarsi a porte chiuse i notabili di ieri e di oggi. Ma, quel che è peggio, lo spirito di adattamento e di imitazione, alla fine ha fatto sì che persino per scegliere i candidati al coordinamento dei circoli e delle federazioni, si sia affacciato, qua e là, qualche tentativo di “caminetto” dei notabili, grandi elettori, capi corrente, capi corporazione, amministratori.
Il sistema è devastante, perché produce errori a ripetizione, annacqua le novità per non scontentare nessuno, penalizza l’innovazione e gli innovatori, visti come minaccia, promuove, a cascata, dirigenti e candidati per “quote d’area”, leggi fedeltà a capi e capetti. Il nuovo partito si indebolisce politicamente e nell’immagine.
Caro Walter, hai fatto e farai tanto per il PD, ma ascolta questa preghiera : visto com’è andata, e per lavorare meglio e di gran lena in futuro, liberaci dai “caminetti”, ora e sempre.
Claudio Frontera
Assemblea Costituente Toscana del PD.

domenica 4 maggio 2008

GIA’, PERCHE’?


Invitante l’editoriale del Direttore Bruno Manfellotto, sul giornale di oggi.
Non si può fare a meno di chiedersi, sostiene, perché l’elettorato alla sinistra rimproveri gli stessi comportamenti che perdona alla destra. La “casta” ha indignato l’elettorato di sinistra, ma non ha scomposto quello di destra. Clientele e malcostume ci sono a destra e a sinistra, ma il prezzo che ha pagato la sinistra, che ha perso voti verso l’astensione e verso la destra, il PDL non l’ha pagato. E cosi proseguendo per tanti aspetti della politica italiana, mortali per la sinistra, innocui per la destra. Perché?
Già, perché gli elettori dovrebbero votare la sinistra, se fa le stesse cose, adotta gli stessi comportamenti, talvolta le stesse giustificazioni, della destra?
La sinistra (il centro-sinistra) ha una chance se è alternativa alla destra (al centro-destra). Non è questa la logica dei sistemi bipolari? Più la sinistra riesce in questa impresa senza fuggire nei proclami o nell’ideologia, ma restando con i piedi ben saldamente piantati per terra e facendo proposte realistiche e pratiche, più le sue quotazioni aumentano. Più la sinistra si confonde, nei programmi e nell’atteggiamento del ceto politico che la rappresenta, con gli avversari e più teme, al suo interno, innovazione e innovatori, più si allontana dai suoi possibili elettori.
Le cause di questa asimmetria tra le aspettative che si rivolgono a sinistra e quelle che si riferiscono alla destra sono state più volte indagate e forse non sono del tutto razionali, ma tant’é.
A che serve dolersene? E se fosse tutta qui, senza bisogno di cercarla tanto lontano, la ricetta per cercare di vincere in futuro?
Claudio Frontera.
04/05/2008