Ho vissuto un’altra stagione alla ricerca dell’unità alla ricerca di una lettura non ideologica della realtà e per impostare strategie funzionali a progetti che nel tempo consentissero ai lavoratori, alle lavoratrici e al Paese tutto di lanciarsi costruttivamente verso il futuro. Erano gli anni '70. Spingemmo decisamente in molti, ma non fu sufficiente. Troppi muri sollevati in nome di identità che, nonostante etichette e timbri, erano sempre meno definite.
Anche in quel caso ci furono ‘caminetti’, ‘guastatori d’assalto’, ‘punte avanzate’. Ma mancò la volontà di alcuni gruppi ‘forti’ - di varia colorazione d’origine e partitica - per poter procedere. Il partito Democratico potrà veramente crescere quando quegli stessi gruppi riusciranno a non avvilupparsi su se stessi, immobilizzandosi e costringendo all’immobilismo i compagni di viaggio; all’interno del partito e quelli che all’esterno di esso hanno bisogno del suo supporto per tentare il raggiungimento di un qualche obiettivo condiviso. Ha poco rilievo che questi ultimi siano dentro l’area liberal di Centro, ancora da amalgamare e ripulire da cascami vari) o dentro una sinistra tutta da reinventare.
«Se sono malato non faccio un sondaggio fra i miei amici per sapere come curarmi, ma vado da un medico, e magari dallo specialista che ne sa, sulla mia malattia, più di chiunque altro, e il suo parere, il parere di una sola persona, conta per me più di quello delle moltitudini.» Perché uomini o donne democraticamente selezionati (tra candidature diverse) e rappresentativi (quindi in linea di principio capaci di curare), dovrebbero non essere lo specialista della cosa pubblica? Si vuole insistere sulla strategia (fallimentare sul piano della partecipazione ed il coinvolgimento) del ‘comandante in capo’, capace di tutto risolvere? Certo si ha un chiaro conflitto funzionale tra partecipazione e capacità gestionale, ma un equilibrio calibrato può e deve essere trovato - se si vuole che la democrazia non si riduca ad un momento e ad una parola. Qualcuno dice che il suffragio universale è solo metà della democrazia; l’altra metà è la professionalità politica. Ne convengo. Solo se i cittadini sono messi in condizione di sapere e capire quel che fanno, il loro voto ha un significato autenticamente democratico, la loro capacità di proposta e consenso non è ridotta a un fatto solo formale. Altrimenti, qualunque imbonitore (capace ed attrezzato per organizzare il consenso) può averla vinta.
Dice Claudio: « Nella breve e forsennata campagna elettorale nelle centodieci province italiane, Veltroni ha fatto il quasi-miracolo di conquistare la fiducia di un italiano su tre verso un partito nuovo» che ha cercato di compattarsi e ignorare (al momento) le proprie diversità. «Scommessa e promessa sincera di novità e modernità.» Sono d’accordo: «occorre continuare e andare avanti.» Ma a livello nazionale, come a livello locale, si corre il rischio di perdere il ‘nuovo’ condiviso se ci si impantana nelle oligarchie (non è l’età che le determina, ma la voglia della gestione del potere fine a se stessa, il fare del potere il fine e non lo strumento al servizio di un progetto). I ‘caminetti’ possono essere uno strumento. Ma uno strumento non è di per sé buono o cattivo, dipende da come lo si usa o come lo si lascia usare se si è in una realtà organizzata. Sono da sempre convinto (e l’esperienza me lo ha più volte confermato) che la tentazione dell’agorà come unico strumento di democrazia - o se preferite l’assemblearismo - mostra ampiamente i suoi limiti, ad ogni livello e che le ‘primariette’ troppo spesso sono un “pannicello di acqua calda su una gamba di legno”. Ne discende che deve essere organizzata una concatenazione rappresentativa che ponga limiti di controllo e autonomia progettuale, che si deve in parallelo alimentare l’autonomia progettuale e decisionale settoriale come permanente elemento di verifica della nostra azione che si rivolge non a questo o quello ma a tutti i cittadini, qualsiasi sia il loro ruolo nella società. Non è stato fatto (per colpa dei tempi o delle oligarchie, poco importa!) e questo fa sbucare i ‘caminetti’ di cui ora si parla. Deve essere cambiato registro, approfittando dei tempi che ci offre la sconfitta quantitativa (ma non qualitativa). Alla svelta. A Roma come a Livorno.
Ettore Bettinetti
«Se sono malato non faccio un sondaggio fra i miei amici per sapere come curarmi, ma vado da un medico, e magari dallo specialista che ne sa, sulla mia malattia, più di chiunque altro, e il suo parere, il parere di una sola persona, conta per me più di quello delle moltitudini.» Perché uomini o donne democraticamente selezionati (tra candidature diverse) e rappresentativi (quindi in linea di principio capaci di curare), dovrebbero non essere lo specialista della cosa pubblica? Si vuole insistere sulla strategia (fallimentare sul piano della partecipazione ed il coinvolgimento) del ‘comandante in capo’, capace di tutto risolvere? Certo si ha un chiaro conflitto funzionale tra partecipazione e capacità gestionale, ma un equilibrio calibrato può e deve essere trovato - se si vuole che la democrazia non si riduca ad un momento e ad una parola. Qualcuno dice che il suffragio universale è solo metà della democrazia; l’altra metà è la professionalità politica. Ne convengo. Solo se i cittadini sono messi in condizione di sapere e capire quel che fanno, il loro voto ha un significato autenticamente democratico, la loro capacità di proposta e consenso non è ridotta a un fatto solo formale. Altrimenti, qualunque imbonitore (capace ed attrezzato per organizzare il consenso) può averla vinta.
Dice Claudio: « Nella breve e forsennata campagna elettorale nelle centodieci province italiane, Veltroni ha fatto il quasi-miracolo di conquistare la fiducia di un italiano su tre verso un partito nuovo» che ha cercato di compattarsi e ignorare (al momento) le proprie diversità. «Scommessa e promessa sincera di novità e modernità.» Sono d’accordo: «occorre continuare e andare avanti.» Ma a livello nazionale, come a livello locale, si corre il rischio di perdere il ‘nuovo’ condiviso se ci si impantana nelle oligarchie (non è l’età che le determina, ma la voglia della gestione del potere fine a se stessa, il fare del potere il fine e non lo strumento al servizio di un progetto). I ‘caminetti’ possono essere uno strumento. Ma uno strumento non è di per sé buono o cattivo, dipende da come lo si usa o come lo si lascia usare se si è in una realtà organizzata. Sono da sempre convinto (e l’esperienza me lo ha più volte confermato) che la tentazione dell’agorà come unico strumento di democrazia - o se preferite l’assemblearismo - mostra ampiamente i suoi limiti, ad ogni livello e che le ‘primariette’ troppo spesso sono un “pannicello di acqua calda su una gamba di legno”. Ne discende che deve essere organizzata una concatenazione rappresentativa che ponga limiti di controllo e autonomia progettuale, che si deve in parallelo alimentare l’autonomia progettuale e decisionale settoriale come permanente elemento di verifica della nostra azione che si rivolge non a questo o quello ma a tutti i cittadini, qualsiasi sia il loro ruolo nella società. Non è stato fatto (per colpa dei tempi o delle oligarchie, poco importa!) e questo fa sbucare i ‘caminetti’ di cui ora si parla. Deve essere cambiato registro, approfittando dei tempi che ci offre la sconfitta quantitativa (ma non qualitativa). Alla svelta. A Roma come a Livorno.
Ettore Bettinetti
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