giovedì 24 maggio 2007

La Repubblica: la sindrome del Palazzo

22 maggio 2007
Stefano Rodotà
L’immagine del Pa­lazzo è antica, parla di distanza, privile­gi, addirittura di sopraffa­zione. Entra nella pubblica discussione italiana quan­do se ne impadronisce Pier Paolo Pasolini e la brandi­sce come un'arma per de­nunciare corruzione poli­tica e abusi di potere, invo­cando per il massimo re­sponsabile, all'epoca indi­cato nella De, un Processo. Nessuno, già allora, poteva dire "non so", ma quasi tutti si comportavano come se non sapessero.
Anzi, chi invocava"austerità" e parlava di "questione mora­le" veniva accusato di volere una politica triste, di cedere al moralismo, parola in Italia usata con di­sprezzo per affrancarsi anche dagli obblighi minimi della moralità. Era Enrico Berlinguer che lanciava quei moniti, e so bene che questo è un ri­cordo scomodo per chi vuole entra­re nel futuro senza memoria, co­struirsi un pantheon di comodo, af­fannarsi alla ricerca di qualsiasi le­gittimazione. Ma è un ricordo importante proprio perché oggi si di­scute del rapporto tra politica e società, tanto logorato da far temere una catastrofe. Quando Berlinguer morì, un'onda di emozione attra­versò il Paese, che non era solo un fatto di sentimenti (che pure conta­no assai), ma che si tradusse in consenso politico nelle elezioni europee di poco successive, guadagnando al Pci uno storico sorpasso sulla Dc. Ri­gore, misura, onestà erano percepi­ti e dichiarati come valori dai quali la politica non doveva separarsi.
Dopo di allora cominciò un'altra stagione. Il realismo cinico faceva scuola, i machiavelli si compravano a un tanto al chilo, ai massimi livelli di governo si proclamava che la po­litica era "sangue e merda", che la tangente doveva essere legalizzata, che alla politica si doveva applicare la logica del supermercato dove, più che arrestare i ladri, si scarica sui prezzi il costo dei furbi. Sappiamo come è andata a finire. Man mano che si smagliava la rete di protezione pazientemente costruita negli anni, e i vecchi equilibri venivano spazza­ti via dalla caduta del Muro, comin­ciavano a comparire sulla ribalta giudiziaria vicende per lungo tempo tenute al riparo dall'attenzione del­la magistratura da un sapiente gioco di dinieghi, di autorizzazioni a pro­cedere, e spostamenti di inchieste e processi. E fu Mani pulite.
Negli anni successivi la tesi del complotto, del colpo di Stato giudi­ziaria ha progressivamente preso il sopravvento. Questo è stato il vero colpo di spugna con l'oblio fatto ca­dere sull'abisso di corruzione pubblica e privata che era stato scoper­chiato. Le responsabilità erano tut­te dalla parte dei giudici e non dei politici, che hanno così potuto tor­nare a tessere robustissimi fili di corruzione e ritenersi legittimati da una privatizzazione senza prece­denti del denaro pubblico. Alla cor­ruzione più o meno nascosta si è co­sì affiancato il saccheggio delle ri­sorse dello Stato.
Ed eccoci qua a stracciarci le ve­sti, a scrivere libri sul costo della po­litica, chiedendo che si recuperino risorse tagliando qui e là, cosa sa­crosanta, ma che rischierebbe d'es­ser un esercizio inutile se non sarà accompagnato da un recupero del­la risorsa sostanziale, la moralità pubblica perduta e dileggiata che è anche questione di misura, so­brietà, rispetto degli altri.
Ho visto il pomposo Chirac in una mattina di domenica invernale, scendere da una macchina accom­pagnata da un'unica auto di scorta e, solo, senza codazzi e turbinii di guardie di corpo, entrare nel grande anfiteatro della Sorbona per celebrare i vent'anni del Comitato na­zionale di bioetica. Vedo quasi ogni giorno davanti a Sant'Andrea della Valle passare rombanti, con palette agitate e sirene spiegate, auto di pic­coli potenti, impediti da tutto quel frastuono di ascoltare le maledizio­ni loro rivolte dalle persone che si trovano sui marciapiedi.
L'apparire sfarzoso, o solo chias­soso, sostituisce il potere declinan­te. La disoccupazione è lenita dagli stipendi ai consiglieri circoscrizio­nali. Le Camere soffrono di emargi­nazione, compensata da bonus ag­giuntivi e riduzione dei carichi di la­voro.
Anni fa, proprio su questo giorna­le, suggerivo una piccola riflessione. Che cosa accadrebbe se un impren­ditore, proprietario di due aziende, scoprisse che una di esse produce lo stesso numero di pezzi con metà dei dipendenti dell'altra? E' proprio quel che accade in Parlamento, do­ve il Senato fa esattamente lo stesso lavoro della Camera con metà degli "addetti". Calcolavo poi che i parla­mentari attivi, quelli che mandano avanti la baracca, sono poco più di un quinto dei componenti delle Ca­mere, sicché insieme a Luigi Ferrajoli si organizzò un convegno po­lemicamente intitolato "Una Ca­mera cento rappresentanti".
Detesto le logiche aziendalistiche trasferite nella politica e so bene che il Parlamento ha una funzione rappresentativa che va bene al di là della produttività legislativa. Quan­do però la funzione rappresentativa è sequestrata da oligarchie che si ri­producono la macchina legislativa si inceppa, diviene forte il bisogno, non dirò la tentazione di tagliare senza troppi riguardi.
La riduzione del numero dei par­lamentari sarebbe un segnale im­portantissimo, anche se non si può vivere di soli segnali. Ma sarebbe pure una misura insufficiente, se i re­stanti parlamentari continuassero ad essere selezionati come è avve­nuto in questi anni, a venir sommer­si da decreti legge, a essere prigio­nieri di quella macchina produttrice di corruzione istituzionale che è di­venuta la legge finanziaria, a non av­viare e sperimentare forme nuove di rapporto con la società.
Ma il dialogo con l'opinione pubblica, il recupero della fiducia non possono essere affidati solo ad una politica dell'immagine. E soprattut­to a quel modo di intendere l'immagine di cui la politica italiana sembra ormai rassegnata prigioniera. In tutti i paesi che frequento non ho mai registrato una bulimia televisiva pari a quella italiana, una overdo­se di politici (non di politica, che è al­tra cosa) nei più disparati talk show, da quelli sportivi a quelli in cui si ti­rano e si prendono torte in faccia. Forse vi sono politici che, senza que­sto continuo apparire si sentirebbe­ro morti. E invece è proprio un'immagine di morte, o almeno di rinun­cia alla dignità quella che proietta­no, essendo giustamente percepiti come una logora compagnia di giro, con le sue maschere fisse e che por­ta in tournée i suoi battibecchi, solo nelle apparenze e nelle parole lega­ti ai problemi delle persone e del mondo. Il Palazzo sembra essersi tutto dissolto nei network televisivi.
Attenzione, però. Ilvo Diamanti ha opportunamente messo in guar­dia contro frettolosi paralleli tra le cause che portarono al collasso dei primi anni '90 e la situazione attua­le. Ma il discredito che avvolge la politica sta rafforzando gli altri po­teri, da quelli economici a quelli cri­minali, soprattutto per quanto ri­guarda la loro legittimazione socia­le. E' da lì che si attingono modelli, sono quelli i Palazzi che si vogliono frequentare.
Il sedimentarsi di questo modo di sentire produce una fuga dalla politica, rendendo ancor più difficile un vero rinnovamento della classe di­rigente. Se l'entrata in quel Palazzo diventa un marchio d'infamia, un segno permanente di impurità, chi vorrà varcarne la soglia? E chi lo avrà fatto con spiriti diversi dalla pura camera e dall'arricchimento, da quel mostruoso connubio con il de­naro e la corruzione, dovrà essere additato in eterno come partecipe di una congrega che ha perduto per sempre il diritto di essere presente sulla scena pubblica? In questo mo­do non si favorirà chi nell'ombra dei poteri, ha coltivato una finta indi­pendenza?
La politica è una cosa sporca, ha sempre proclamato un perverso senso comune. Per evitare che que­sto si consolidi come l'unico modo di guardare alla politica bisogna non dare segnali ma avviare azioni concrete. Ristabilire la legalità, pri­ma di tutto: può uno specifico Pa­lazzo, quello di Montecitorio, con­tinuare ad essere il rifugio di chi, condannato in via definitiva do­vrebbe da tempo averlo lasciato? Abbandonare i fasti di Palazzo: le Camere devono lavorare o organizzare mostre? Rinunciare all'imma­gine a favore della trasparenza: pre­senza televisiva o presenza di sog­getti nuovi che seguano da vicino una serie di scelte e ne certifichino la correttezza? Denunciare gli abu­si e cominciare ad accompagnarli con l'indicazione precisa di chi li ri­fiuta e li combatte: è illusorio pen­sare che la moneta buona possa cominciare a scacciare quella cattiva?
E, soprattutto, spazio parola e mezzi proprio ai moralisti, per av­viare quella ricostruzione di un'etica pubblica senza la quale è vana la ricerca di ogni consenso tra i cittadini.

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