giovedì 24 maggio 2007

La Stampa: Un timoniere per il "Titanic" della politica

23 maggio
MICHELE AINIS

La crisi che attraversa la politica non è uguale a quella del 1992: è molto peggio. Perché allora montò un vento d’indignazione collettiva contro i politici corrotti; oggi si prepara una bufera che non risparmierà nessuno, senza distinguere onesti e disonesti, capaci ed incapaci. Agli uomini politici (e alle poche donne che siedono con loro nel Palazzo) gli italiani rimproverano d’esistere, né più né meno. Nutrono un odio di classe simile a quello del Terzo Stato contro l’aristocrazia francese, alla vigilia dell’Ottantanove. Covano un sentimento generalizzato di disgusto, o al più d’indifferenza (83 italiani su 100, in base al sondaggio di Mannheimer), che per una volta unisce la destra e la sinistra, i guelfi e i ghibellini.Rispetto agli anni di Tangentopoli vanno poi annotate due ulteriori discrepanze. Perché a quel tempo il ceto politico non seppe avvistare l’iceberg piantato dinanzi alla prora del Titanic, benché Il portaborse di Nanni Moretti fosse stato proiettato nei cinematografi ben prima che esplodesse l’inchiesta di Milano; ora invece gli scricchiolii giungono distintamente all’orecchio dei politici, i quali tuttavia non sanno metterci rimedio, e anche quest’impotenza è parte del problema. E perché in secondo luogo stavolta la marea s’allarga dalla politica alla polis, dai governanti alle stesse istituzioni (meno di un italiano su tre ha ancora fiducia in governo e Parlamento). In breve, il discredito sommerge ormai lo Stato, e perciò le basi stesse della nostra convivenza.Noi non sappiamo in che modo l’onda d’urto colpirà il proprio bersaglio. Può scegliere la fuga dalle tasse, come nei giorni scorsi ha paventato De Rita. Può esprimersi nella forma del non voto, o altrimenti della scheda bianca collettiva, come ha già annunciato Giampaolo Pansa, e come accade in un romanzo visionario di José Saramago. In un caso o nell’altro l’ordine legale andrebbe in pezzi, e i pezzi verrebbero raccolti da qualche cavaliere solitario. Sappiamo però che i rimedi interni alla politica non funzionano, non hanno speranze di successo. Se c’è una scena affollata da 24 partiti, e se anche i più piccoli hanno poteri di veto sulla riforma elettorale, solo un ingenuo potrebbe illudersi su un suicidio di massa dei partiti. Se i costi dipendono dai 427.889 posti che mette in palio la politica, e se chi ha un posto decide altresì sul proprio costo, sarebbe da anime candide sperare che costoro seghino il ramo su cui stanno seduti.Servono perciò rimedi esterni, giacché uno storpio non può raddrizzarsi da se stesso. E servono soluzioni eccezionali, perché questo è un frangente eccezionale. Può giocare un ruolo il referendum prossimo venturo, anche se il referendum non è la panacea di tutti i mali. Ma gli anticorpi alla crisi dello Stato vanno individuati nello Stato. Per meglio dire, negli organi con funzioni di garanzia, piuttosto che d’indirizzo politico attivo. D’altronde la distinzione fra garanzia e indirizzo può ben essere sottile, e comunque ogni potere pubblico è un po’ come un elastico, che può stirarsi senza toccare il punto di rottura. Questo vale per la Consulta, che non farebbe male a svegliarsi dal tran tran, per esempio castigando l’abuso dei decreti legge varati in assenza dei presupposti costituzionali, o ancora e per esempio supplendo all’inerzia delle assemblee parlamentari con pronunzie di tipo additivo. Vale per la Corte dei conti, sentinella degli sprechi. Ma soprattutto vale per il Capo dello Stato.Del resto una tradizione giuridica che viaggia da Schmitt a Esposito lo configura come «reggitore dello Stato» durante le crisi di regime. Ma le crisi è meglio prevenirle che combatterle. Per riuscirci non basta più la moral suasion che Napolitano ha usato di recente, con il suo doppio monito a governo e Parlamento. Probabilmente è necessario usare in modo ferreo i poteri di veto (sui disegni di legge, sui decreti legge, sulle leggi), convertendoli in poteri d’impulso attraverso i messaggi di rinvio alle Camere. È necessario (come già indicò Paolo Barile) dare corpo sostanziale ad altre competenze fin qui solo formali, dalla presidenza del Consiglio supremo di difesa a quella del Csm. Un presidente politico come Giorgio Napolitano saprebbe ben trovare tempi e modi, senza rispolverare le picconate di Cossiga, anch’esse cadute - e non a caso - quand’era alle viste Tangentopoli. Insomma per uscire dalla crisi non ci serve un Führer, e forse nemmeno un Cincinnato; ma un commissario sì.

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