lunedì 28 maggio 2007

Il leader necessario al partito che nasce

La Repubblica del 28 maggio 2007
di Edmondo Berselli
E’ vero che ogni decisione riguar­dante la marcia di avvicinamento al Partito democratico assomiglia a un appuntamento con la teologia. E quindi anche la discussione sui tempi della scelta del leader potrebbe apparire come una nuova disquisizione bizanti­na, uno di quei problemi autoriferiti che appassionano i corridoi di partito e la­sciano indifferente se non infastidita l'o­pinione pubblica. Ma se tre figure di rilie­vo nell'area «democratica», vale a dire Dario Franceschini, Walter Veltroni, e ora anche Anna Finocchiaro con la sua allure di leader potenziale, si esprimono a chiare lettere affinchè la designazione del leader sia contestuale all'assemblea di fondazione del partito il 14 ottobre, vuoi dire che su questo specifico punto il Partito democratico si gioca qualcosa di molto significativo.
Andrà anche sottolineato che è di qualche interesse che a movimentare la situazione del Pd siano tre espo­nenti che rappresentano anche un visibile stacco generazionale: ma al di là delle ambi­zioni personali, ciò che conta in questo momento è la volontà di non accontentarsi di un procedimento inerziale.
Fissare per ottobre la scelta del leader si­gnifica mobilitare tutte le componenti del partito invia di formazione, non solo il suo ceto dirigente.
Consegnare infatti alle élite interne la scelta delle procedure significherebbe re­plicare i meccanismi di cooptazione e spartizione che hanno caratterizzato, ad esempio, la composizione del comitato dei 45: con gli effetti grotteschi che si han­no allorché una decisione semplice deve essere assunta da un organismo pletorico.
Ora, se il Partito democratico ha una speranza nell'evolu­zione della politica italiana, questa spe­ranza dipende esclusivamente dalla pos­sibilità di coinvolge­re nel processo di fondazione settori il più possibile larghi di società civile. A questo punto serve a poco criticare anco­ra una volta il modo burocratico con cui si è avviata la crea­zione del nuovo par­tito. Non è inutile, piuttosto, ricordare che il coinvolgimen­to e la mobilitazione si ottengono non tanto con gli appelli e la retorica, bensì con la creazione di un partito aperto, in cui a ogni livello le cari­che e i ruoli siano contendibili, e in cui il giudizio diretto dei cittadini abbia un ruolo preminente.
Insomma per dirlo con una formula il Pd ha una chance se fin dalla primissima fa­se diventa il partito delle primarie: in cui non esistono feudi, primazie, poteri indi­scussi, ma un confronto aperto e traspa­rente fra personalità in competizione.
Dentro questa struttura di partito «sca­labile», la scelta della leadership è un mo­mento cruciale. E allora, pensando al 14 ottobre, un conto è un evento politico in cui si consuma un incontro fra gruppi di­rigenti, con una pallida cornice di popolo, e un altro conto invece è un processo costituente entro il quale le figure di mag­giore spicco si misurano a caldo in un'are­na democratica, su un orizzonte che non prevede né tatticismi né risultati precon­fezionati.
Tuttavia non si tratta soltanto di un me­todo funzionale a ravvivare un esperi­mento politico che ad alcuni oggi appare artificiale. Come ha ricordato Veltroni, la creazione del Pd attraverso la prova del fuoco dell'elezione del leader costituisce una riposta efficiente e responsabile a quella «crisi di democrazia» che minaccia di trasformarsi in crisi di legittimità della politica intera.
Che dentro il mondo ulivista, e in parti­colare nell'ambiente prodiano, perman­gano dubbi e perplessità sulla scelta della leadership, può essere comprensibile, an­che se non sono chiarissime le ragioni che inducono a frenare. Oggi il centrosinistra è in crisi di consenso, e le elezioni ammi­nistrative in corso potrebbero assestare all'Unione uno scossone ulteriore, ridare fiato a Berlusconi, riportare all'ordine del giorno le velleità di spallata. Quindi il go­verno, il premier Prodi, e il baricentro po­litico dell'alleanza (cioè Margherita e Ds) avrebbero bisogno in realtà di una reazio­ne forte, che funga da ubi consistenti nella prossima difficile stagione, e di un impe­gno riscontrabile della loro constituency, che faccia da innesco alla mobilitazione dell'opinione pubblica di riferimento.
Il Partito democratico è una iniziativa in bilico, in questo momento. Ha bisogno di ritrovare un impul­so, una direzione, un obiettivo. Finora ha perso di vista il coin­volgimento della so­cietà esterna alla po­litica, ha celebrato due congressi sepa­rati di partito, ha vi­sto una sorta di scissione a sinistra che genererà probabil­mente un altro parti­to. Se si perdesse an­che l'occasione del­l'assemblea di fon­dazione, e l'effetto simbolico ed emoti­vo che verrebbe introdotto dalla scelta del leader, bisogne­rebbe davvero rasse­gnarsi a un'espe­rienza che nasce solo come una variante d'opera nel sistema politico dato.
Ma a perdere que­sta opportunità, che cosa rimarrebbe per i riformisti, i «demo­cratici», i modernizzatori del centrosinistra, se non un lento passaggio che ri­schia di concludersi nella banalità?

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