giovedì 24 maggio 2007

La Repubblica: Il sovrano distante nella città proibita

22 maggio 2007
Filippo Ceccarelli
Il Palazzo è il centro del potere separato. E per tanti versi è pure un bene che lo sia.Ma quando questo potere si fortifica sotto gli occhi dei cittadini inermi; quando si corazza, si munisce, si blinda sfidando la razionalità e il buonsenso; quando le istituzioni smarriscono la loro natura per vi­vere un tempo proprio e uno spa­zio esclusivo (dal latino "ex-claudo", chiudo fuori, possibilmente a chiave), ecco allora che com'è oggi co­minciano i guai. E ancora una volta l'architettura ne rivelava l'im­minente so­praggiungere. Da tre quat­tro anni la città politica è stata invasa da ga­ritte di svariata foggia, fioriere frangi-traffico in cemento ar­mato, strade ristrette di col­po, fermate degli autobus abrogate, e sbarre auto­matiche, pas­saggi a livello, parcheggi speciali, tele­camere, fari. L'ultimo ritro­vato sono cer­te colonnine retrattili, con tanto di lucette rosse e verdi, che do­vrebbero scoraggiare le auto ka­mikaze dall'esplodere in quei pressi. Nessuno sa quanto costa­no tali pistoni "a scomparsa", es­sendo il Moloch della Sicurezza acerrimo nemico della trasparenza. I pilastri intorno a Palazzo Madama recano una sontuosa placca in ottone con fregio. Gli abitanti del centro storico prote­stano, invano.
Perché la separatezza non è un concetto astratto, né un disposi­tivo puramente logistico e visua­le. Ai vetri oscuri delle auto blin­date e alle scorte strombazzanti ai semafori (lo consente una nuova normativa) fanno riscontro i privilegi di organismi parlamen­tari divenuti tanto sfarzosi, or­mai, quanto deboli e incerti sul piano politico: ferie interminabi­li, comunque, pensioni fantastiche, condizioni bancarie uniche in Italia. I presidenti delle assem­blee hanno commessi, detti "culisti", che gli tengono in caldo le poltrone della prima fila nelle ce­rimonie pubbliche; alcuni presi­denti di gruppo parlamentare ri­chiedono in anticamera com­messe graziose, "con i tacchi" specificano. Di recente i deputa­ti e i senatori hanno preso a rac­cogliersi in club di tifosi; oppure in gruppi di ciclisti, alpinisti, ca­vallerizzi. Questi ultimi pretese­ro di sfilare in mezzo al traffico di Roma, con adeguata sorveglian­za.
Tutto sembra lì dentro vivere di vita propria. Ci sono ristoranti, caffetterie, infermerie, uffici po­stali, circoli sportivi, cappelle. Non di rado i rappresentanti del­la volontà collettiva partono per improbabili gite di studio o addi­rittura vanno in pellegrinaggio in Terrasanta, sulle orme di San Paolo o a Santiago di Composte­la; ma alcuni onorevoli fanno i capricci quando si tratta di varca­re i metal-detector agli aeroporti. Al Senato organizzano settimane gastronomiche regionali e corsi di sommelier; alla Camera recla­mano l'asilo nido e sta per essere inaugurata anche la sala di meditazione interconfessionale.
Nell'estate del 1975 Pier Paolo Pasolini, che era un poeta ma an­che un profeta, diede dignità let­teraria e apocalittica al Palazzo. Ma l'immagine è antichissima, forse addirittura di ascendenza classica, e c'è chi la fa risalire ai "superba civium potentiorum limina", le porte superbe dei po­tenti di cui parla Orazio. E' Fran­cesco Guicciardini, comunque, nei suoi Ricordi, ad aver fornito la descrizione più celebre e anti­veggente: «E spesso tra 'l palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso che, non vi penetrando l'occhio degli uomi­ni, tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India». Per dire un mon­do remoto e incomprensibile.
A qualche secolo di distanza, come sempre accade in Italia, tutto è cambiato per restare fede­le a se stesso. Alle sue confortevoli metafore, alle sue sbilenche il­lusioni. L'anno scorso Giuseppe De Rita, e quindi non esattamen­te l'alfiere del più assatanato qualunquismo, ha dato alle stampe un prezioso libricino dal titolo, invero asettico, Viaggio nelle istituzioni italiane. Ebbene, vi si legge, proprio in apertura: «E' impressionante vagare per mini­steri surrealmente vuoti. E' im­pressionante vedere enti pubbli­ci senza mission reale ma pieni di personale attento solo alla sua permanenza sul posto. E' im­pressionante vedere autorità pubbliche anche formalmente prestigiose infarcite di clientes, nei livelli alti come a quelli bassi. E' impressionante vedere - con­tinuava sgomento il segretario generale del Censis - una diri­genza pubblica disintegrata dal­la discrezionalità assoluta con cui i ministri la tiene a guinzaglio con contratti da Co.co.co. E' im­pressionante vedere il menefre­ghismo cinico con cui si lavora nel pubblico».
Il pubblico, ecco. Nel senso tradizionale di cosa pubblica, ma ormai anche in quello prevalente di spettatori. E' in quest'ambito forse che l'idea del Palazzo si è si è estesa, si è sparsa e si è pure ac­cartocciata. L'antica separazio­ne ha preso vie ancora troppo evolute e misteriose da delinea­re. La tecnologia, specie quella delle visioni a distanza e in tempo reale, costringe il potere a mo­strarsi incessantemente, però al tempo stesso ne rivela pure i vuo­ti, gli scarti, le magagne.
Così, la città proibita abbandona i luoghi deputati ed emigra al­trove. Berlusconi, che è un sovra­no, ha soprattutto i suoi, di palaz­zi: Arcore, via del Plebiscito (con un "parlamentino" al piano ter­ra), villa La Certosa. Gli altri po­tenti continuano a radunarsi sempre fra loro, ma spesso e vo­lentieri lo fanno in ville, castelli, conventi, resort d'atmosfera, tribune d'onore degli stadi, feste vi­gilate da nerboruti gorilla, salotti meta, para, trans e post-istituzionali di cui Bruno Vespa si fa civet­tuolo resocontista tramandando ai suoi non pochi lettori le delizie eno-gastronomiche. Oppure si concentrano in quegli amma­lianti baracconi artificiali, sotto quelle tensostrutture leggerissime e provvisorie allestite secon­do il modello dei set televisivi.
Sembrano saltati i confini del sacro recinto della politica. Il po­tere trasloca. La privatizzazione del Palazzo sembra compiuta. Ma la sostanza, che poi è anche la distanza, non cambia, anzi si ac­cresce. E prima o poi bisognerà colmarla, vivamente si spera nel modo più indolore possibile.

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