sabato 16 giugno 2007

Subito primarie e un vero leader o il PD affonda

La Repubblica
MARIO PIRANI
La sinistra è in preda a una sindrome scaramantica. Rifiutando di discutere a fondo le dimensioni e soprattutto le cause della sua sconfitta, s´illude che questa non oltrepassi i confini municipali e non presenti, comunque, sintomi di tale gravità da meritare approfonditi dibattiti e pronte decisioni. Impressiona la perdita del senso di realtà come denota quella frase auto consolatoria, ripetuta ad ogni pié sospinto: «La spallata non c´è stata!». Quasi una giaculatoria rivolta al santo patrono perché il terremoto non ha spianato l´intero Paese e si possa tornare alle abituali occupazioni senza guardare se il sisma abbia scosso le fondamenta strutturali e i muri maestri, con l´incombere sempre in agguato di un crollo catastrofico improvviso. Al più si ripete a mo´ di post scriptum l´altra frase dall´incomprensibile significato: «Ora il governo deve cambiare passo». A tentare una analisi non restano che i bistrattati mass-media, col limite intrinseco della loro estemporaneità e soggettività. Nel caso in questione ho cercato di temperarne gli effetti rivolgendomi a due affermati studiosi sociali, particolarmente esperti dei flussi elettorali, Ilvo Diamanti e Nando Pagnoncelli. Il primo – che ne ha scritto già su Repubblica – invita a non limitare l´indagine sullo smottamento verificatosi in quasi tutto il Settentrione (con l´eccezione ligure, dove, peraltro, la vittoria è stata di una corta incollatura) ma a puntare la lente sull´Italia centrale (Emilia, Toscana, Marche ed Umbria) dove il recente voto amministrativo «ha intaccato a fondo il mito della immobilità politica delle zone rosse», tanto che nei comuni sopra i 15.000 abitanti l´Ulivo perde quasi l´8%. Un dato non dovuto ad un aumento della destra ma alla defezione assenteistica e di protesta di una componente non piccola di quello che un tempo si chiamava «zoccolo duro».
Alle criticità addebitabili alla fiscalità, all´ordine pubblico, all´emigrazione, si sono aggiunte la crescente impopolarità del governo e il ripiegarsi delle speranze suscitate dalla prospettiva del Partito democratico, allorquando tra infinite mediazioni, le nomenklature hanno imposto un tortuoso cammino di scarsissima attrattiva per arrivare alla meta.L´interrogativo è se l´aprirsi di questa linea di faglia nei pilastri storici delle organizzazioni di sinistra sia o no prodromo di un futuro e rapido crollo, paragonabile a quello che ha ridotto al 4,6% il partito comunista francese.L´analisi di Pagnoncelli, simile nei giudizi di fondo, è però segnata da una ipotesi più ottimistica. In primo luogo invita a non sottovalutare l´influenza dei fattori locali nei voti comunali, pur evidenziando il significato dell´astensionismo asimmetrico (che, cioè, ha colpito una sola parte politica e non tutto il corpo elettorale), prova della disaffezione marcata nei confronti dell´Unione e del governo. D´altra parte anche Berlusconi, ad un anno dalla vittoria del 2001, soffrì un calo di ben 14 punti, passando dal 59% al 44% nell´indice di gradimento. L´effetto fu attribuito ai contraccolpi dell´entrata in funzione dell´euro e alla Finanziaria. Il diagramma di Prodi parte, invece, dal 52% iniziale (maggio 2006) e sale al 56% nel luglio 2006 in coincidenza con i primi decreti Bersani sulle liberalizzazioni e con la vittoria ai Campionati del mondo. Crolla di venti punti nell´arco di tempo fra l´indulto e la Finanziaria, risale al 39 fra dicembre e gennaio e al 42% in aprile, immediatamente dopo i congressi ds e Margherita, ma il rapido riemergere delle diatribe interne segna un ripiegamento fino al 37%, con un ulteriore scivolamento al 34 e mezzo in coincidenza con l´affare Visco-Speciale. Non sono state ancora valutate le conseguenze delle recenti intercettazioni e della rivolta fiscale di artigiani e piccoli industriali in seguito alle variazioni degli studi di settore. Sempre secondo Pagnoncelli l´affievolimento marcato del consenso indica che le preoccupazioni del popolo di centro sinistra sono nell´ordine rappresentate dal fisco, dalla sicurezza e dal precariato, accompagnate dal convincimento che almeno sui primi due temi Prodi non sia in grado di dare risposte soddisfacenti. Coefficiente comune è anche l´insopportabilità per i dissidi ormai insanabili tra i vari partner dell´Unione e all´interno stesso dei partiti che ne fanno parte. Di qui l´insorgenza dell´anti politica e la speranza, continuamente rimessa in gioco, di una ritrovata unità attraverso il Partito democratico. Un soffio di ottimismo è, peraltro, offerto dall´analista che ricorda come, al momento delle elezioni politiche, una aliquota dei «disaffezionati» torna, in genere, a dare il voto allo schieramento di tradizionale appartenenza «turandosi il naso». Non è detto che questa reazione si verifichi comunque, e senz´altro non gioca nelle classi giovani.Che fare in un frangente tanto rischioso in cui le ragioni di vita della sinistra sono in bilico su un crinale stretto e franoso? Non basta a consolidarlo il cemento dell´antiberlusconismo e neppure qualche concessione economica per tacitare provvisoriamente le sinistre di governo, emotivamente nostalgiche del vecchio ruolo di oppositori. L´acido corrosivo dell´antipolitica trova una inesauribile sorgente negli atti, nei comportamenti, nel linguaggio supponente di un ceto politico indistinguibile fra destra e sinistra, nella pervasività di una lottizzazione prepotente e priva di competenze, negli sprechi assurdi e offensivi a tutti i livelli della cosa pubblica. Solo una netta e proclamata rottura di continuità su questo terreno può rovesciare la tendenza in atto e ridare spinta propulsiva al centro sinistra. Il decalogo per il Palazzo, che ho suggerito su Repubblica, condiviso da ben 150.000 lettori, voleva rappresentare l´incitamento ad un gruppo di coraggiosi tra i propugnatori del Partito democratico a divenirne i mallevadori. Tutto si gioca ora sulla fondazione di questo partito ma esso darà anelito a un recupero di massa della buona politica solo se verranno rovesciate le premesse meschine su cui sembra reggere un asfittico compromesso. Altrimenti l´iniziativa si risolverà in una Cosa Tre, più deludente delle precedenti.Due fasi ci appaiono indispensabili. Primo: invitare il popolo delle primarie dell´ottobre 2005 ad iscriversi e a votare per nuove primarie, ma primarie vere per un vero leader. Questa volta, quindi, non per manifestare il loro sostegno plebiscitario ad un candidato praticamente unico (la presenza di Bertinotti fu un abile inserimento di bandiera) ma per scegliere, fra vari candidati, quello destinato, in un primo tempo, a guidare il partito con l´autorevolezza, l´indipendenza e la piena legittimità che solo il voto diretto conferisce, e, quando verrà il momento, a concorrere come premier del futuro governo.Secondo: organizzare le primarie in modo da rendere il partito libero, aperto e contendibile, non imbrigliato in partenza dai vecchi apparati. Se si seguisse la procedura di compromesso proposta, le primarie locali eleggerebbero solo i delegati all´assemblea nazionale; questa si svolgerebbe inevitabilmente sotto la regia della nomenklatura bipartitica Ds-Margherita, ed eleggerebbe un segretario precotto e dimezzato, esplicitamente escluso in partenza dalla candidatura a premier. Ad un segretario azzoppato corrisponderebbe un partito demotivato. Le primarie debbono, per contro, essere aperte a tutti assicurando in primo luogo la possibilità di iscriversi, versare il contributo fissato e votare il nome preferito attraverso Internet (esistono sperimentati metodi per escludere doppi voti e altre contraffazioni d´identità). È giustissimo procedere su scala circoscrizionale e, ancor meglio, regionale ma solo se la competizione non resta monca e artificiosa.Per renderla completa è indispensabile che i nomi dei candidati nazionali alla premiership siano abbinati a liste locali di riferimento (oppure votati su una seconda scheda).Se fin qui è stata, per contro, privilegiata la scelta che abbiamo definito monca la ragione c´è ma riguarda esclusivamente le preoccupazioni personali dei maggiori candidati, non certo il bene del futuro partito. Parleremo senza diplomazia: una votazione diretta alle primarie di ottobre è temuta da Prodi perché aprirebbe una vera dialettica tra l´azione di governo e il capo indiscusso del partito unificato di maggioranza, già designato futuro leader, con l´ombra di una successione in caso di crisi ; prospettiva ostica anche per Veltroni, che oggi tutti i sondaggi danno di gran lunga come l´unica carta con sufficienti possibilità di affermazione in future elezioni, ma che non ha certo interesse ad accollarsi una eredità negativa senza il lavacro del voto, in coda alla Legislatura attuale; non piace a D´Alema che vorrebbe fin d´ora sbarrare la strada Veltroni e svolgere il ruolo del kingmaker mandando avanti una donna come Anna Finocchiaro, in qualità, però, di segretario provvisorio e dimezzato.Per Rutelli e Fassino valgono analoghe considerazioni con l´irrisolto dubbio se correre ad ottobre o alla vigilia della campagna elettorale. Tutte obiezioni da non prendere sottogamba perché hanno qualche fondamento. Bisogna, però, riflettere al fatto che esse, per quanto comprensibili, confliggono con le fortune del partito nascente che non può restare fino al 2011 senza una figura che lo regga con assoluta autonomia e piena legittimazione. O affrontare elezioni anticipate con un partito senza guida politica fino all´ultimo minuto.E, allora? Credo che la risposta debba tale da sciogliere il dilemma: Prodi, Veltroni, Rutelli, Fassino e chiunque altro lo ambisca, concorra a primarie dirette fin da ottobre. Chiunque ottenga la maggioranza dei suffragi, sia esso il presidente del Consiglio, un vice presidente, il sindaco di Roma o chiunque altro, questi mantenga la carica istituzionale attuale, assumendo ad un tempo la direzione del partito con un vice segretario esecutivo, di sua scelta, per gli affari correnti. Nel caso di crisi, può correre l´alea di rinsaldare la maggioranza e proporre un nuovo governo, profondamente rivoluzionato e innovativo, oppure si punti ad un gabinetto istituzionale, con alla testa il presidente del Senato o un´altra personalità designata dal Capo dello Stato, con l´obbiettivo di definire una nuova legge elettorale ed andare alle urne.Anche in questo caso scenderebbe naturalmente in campo per il centro sinistra il leader scelto a suo tempo alle primarie. Si può, infine, non far nulla e lasciarsi trascinare dall´andazzo corrente. La fine è prevedibile ma non sarà indolore.

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