Corriere della Sera
5 luglio 2007
Gian Antonio Stella
Ricordate la leggina che doveva esser fatta per togliere dall'illegalità tutti i «portaborse » che lavorano alla Camera e al Senato in nero? A Palazzo Madama è quasi pronta. Peccato manchi un dettaglio: il parlamentare non è obbligato affatto ad assumere i collaboratori pena la perdita in busta paga degli oltre 4mila euro mensili a loro destinati. Se vuol metterli in regola, bene. Sennò, in attesa di un regolamento (campa cavallo...) si terrà i soldi lo stesso.
Del resto, a Montecitorio sono così convinti che alla fine «il polverone si placherà » che, nonostante lo scandalo e gli ultimatum, i deputati usciti dal sommerso sono stati uno su cinque.
Che la materia fosse spinosa si sapeva. Basti ricordare che, dopo l’esplosione del caso dovuta a un servizio delle «Iene », anche i politici più loquaci persero di colpo la voce. Non un commento nelle agenzie Ansa di Paolo Cento, non uno di Enrico La Loggia né di Francesco Storace o Alfonso Pecoraro Scanio. Perfino Paolo Ferrero, che si è esibito su tutto (dall’abolizione delle sanzioni amministrative per chi si droga all’inserimento degli immigrati islamici, da Emergency in Afghanistan ai tafferugli a Chinatown, dal tesoretto al bus guidato da un autista che si era fatto uno spinello), preferì il ruolo del pesce in barile: «Evito di dare giudizi per problemi di ruolo».
Eppure ai primi dimarzo era già tutto chiaro. In un Paese come il nostro, in cui chi è beccato con un dipendente irregolare va incontro a lunghi tormentoni giudiziari, dei 683 collaboratori segnalati dai 630 deputati alla presidenza della Camera perché avessero accesso ai palazzi del Parlamento, quelli in regola erano 54. Cioè l’8 per cento.
E tutti gli altri? Chi raccontò alla «iena » Filippo Roma di prendere 700 euro al mese, chi 800... Chi spiegò che lavorava da dieci anni come «portaborse» senza aver mai avuto «il versamento di un solo contributo». Chi ricordò che tutti gli irregolari tiravano avanti «senza contratto, senza previdenza, senza maternità...». La deputata margheritina Cinzia Dato, dopo avere spiritosamente cinguettato che lei il suo collaboratore lo pagava «riccamente », si impappinò sempre più imbarazzata: «Che contratto? Quanti soldi? Non so... Chieda a lui...».
Il forzista Gaetano Fasolino disse che al suo versava «un contributo di 1.500 euro al mese». Regolarizzato? «Non regolarizzato ». «Cioè in nero?». «Non in nero, cioè, insomma...». Carlo Ciccioli, di An, spiegò infine romanescamente che l’andazzo («semo in Itaja») era quello: «La politica ha dei grossi costi, ognuno s’arangia».
Finché Fausto Bertinotti, sotto l’occhio impietoso della telecamera, cadde dalle nuvole: «Non sapevo ». Disse che non se n’era mai accorto perché «quelli che ho conosciuto io erano qui in forma regolare» e ribadì che lui conosceva «molte persone che prestano il loro lavoro a titolo gratuito » ma certo, siccome c’era «una grave slealtà», adesso si sarebbe dovuto mettere un freno alla cosa. Quanto a Franco Marini, lui pure scomodato come ex sindacalista con l’aggravante di essere presidente di quell’aula in cui da mesi il senatore aennino Antonio Paravia denunciava la vergogna dei portaborse «sommersi», disse che lui «immaginava, non sapeva». E che il problema consisteva nel fatto che «non c’è una normativa» per regolare questo tipo di contratti e quindi ci voleva «una leggina, altrimenti questa situazione non si risolve».
Quattro mesi dopo, la situazione è quella che abbiamo detto. Alla Camera, dopo una serie di rinvii (il 13 maggio si erano messi in regola depositando i contratti dei propri collaboratori solo 105 deputati: uno su sei) è scaduta lunedì anche l’ultima proroga concessa ai colleghi riottosi dai questori, tra i quali l’ulivista Gabriele Albonetti pare intenzionato ad andare fino in fondo: d’ora in avanti potrà entrare solo chi è in regola. E al Senato la commissione Lavoro, presieduta da Tiziano Treu, sta varando la famosa invocata «leggina». Dovrebbe passare, dicono, all’unanimità. Il prezzo pagato a questa unanimità, però, è alto. Tra le affermazioni di principio e le volonterose definizioni di come dovrà essere il contratto («si applica la disciplina privatistica in materia di rapporto di lavoro subordinato, di collaborazione coordinata e continuativa o di lavoro autonomo»), manca infatti il nodo: chi non assumerà regolarmente alcun collaboratore continuerà lo stesso ad avere in busta paga i soldi (4.678 euro al Senato e 4.190 alla Camera ) per i portaborse? Sì. Per ora. «Non si è ritenuto di inserire questo punto nella legge», spiega Treu, «sarà sufficiente precisarlo nel successivo regolamento».
In arrivo quando? Boh... I precedenti, in questi casi, lasciano scettici. Così come è difficile passi la proposta alternativa di Franca Rame. La quale, pur prevedendo la rottura del contratto per giusta causa anche nel caso venga meno il rapporto di fiducia (un senatore post-fascista non può ritrovarsi un collaboratore comunista o viceversa, ovvio) mette dei paletti assai più rigidi. Invisi a chi è ormai insofferente alle regole stabilite per quanti non appartengono al Palazzo.
L’aspetto più sconcertante della leggina, che così com’è rischia di lasciare tutto come prima in attesa che la gente si distragga e non ci pensi più, è in un dettaglio. Dove si scrive che quelle famose norme indispensabili per inquadrare i collaboratori, la cui assenza ostacolava il corretto agire dei bravi parlamentari, ci sono già. Testuale: «Già il decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale del 16 marzo 1987, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero 89 del 16 aprile 1987, ha dato le opportune specificazioni » al punto che l’Inps adottò «un apposito codice contributivo, che rende possibile per i parlamentari instaurare un rapporto di lavoro subordinato con il proprio collaboratore».Venti anni sono passati, da quando fu deciso come evitare i portaborse «in nero ».
Ricordate la leggina che doveva esser fatta per togliere dall'illegalità tutti i «portaborse » che lavorano alla Camera e al Senato in nero? A Palazzo Madama è quasi pronta. Peccato manchi un dettaglio: il parlamentare non è obbligato affatto ad assumere i collaboratori pena la perdita in busta paga degli oltre 4mila euro mensili a loro destinati. Se vuol metterli in regola, bene. Sennò, in attesa di un regolamento (campa cavallo...) si terrà i soldi lo stesso.
Del resto, a Montecitorio sono così convinti che alla fine «il polverone si placherà » che, nonostante lo scandalo e gli ultimatum, i deputati usciti dal sommerso sono stati uno su cinque.
Che la materia fosse spinosa si sapeva. Basti ricordare che, dopo l’esplosione del caso dovuta a un servizio delle «Iene », anche i politici più loquaci persero di colpo la voce. Non un commento nelle agenzie Ansa di Paolo Cento, non uno di Enrico La Loggia né di Francesco Storace o Alfonso Pecoraro Scanio. Perfino Paolo Ferrero, che si è esibito su tutto (dall’abolizione delle sanzioni amministrative per chi si droga all’inserimento degli immigrati islamici, da Emergency in Afghanistan ai tafferugli a Chinatown, dal tesoretto al bus guidato da un autista che si era fatto uno spinello), preferì il ruolo del pesce in barile: «Evito di dare giudizi per problemi di ruolo».
Eppure ai primi dimarzo era già tutto chiaro. In un Paese come il nostro, in cui chi è beccato con un dipendente irregolare va incontro a lunghi tormentoni giudiziari, dei 683 collaboratori segnalati dai 630 deputati alla presidenza della Camera perché avessero accesso ai palazzi del Parlamento, quelli in regola erano 54. Cioè l’8 per cento.
E tutti gli altri? Chi raccontò alla «iena » Filippo Roma di prendere 700 euro al mese, chi 800... Chi spiegò che lavorava da dieci anni come «portaborse» senza aver mai avuto «il versamento di un solo contributo». Chi ricordò che tutti gli irregolari tiravano avanti «senza contratto, senza previdenza, senza maternità...». La deputata margheritina Cinzia Dato, dopo avere spiritosamente cinguettato che lei il suo collaboratore lo pagava «riccamente », si impappinò sempre più imbarazzata: «Che contratto? Quanti soldi? Non so... Chieda a lui...».
Il forzista Gaetano Fasolino disse che al suo versava «un contributo di 1.500 euro al mese». Regolarizzato? «Non regolarizzato ». «Cioè in nero?». «Non in nero, cioè, insomma...». Carlo Ciccioli, di An, spiegò infine romanescamente che l’andazzo («semo in Itaja») era quello: «La politica ha dei grossi costi, ognuno s’arangia».
Finché Fausto Bertinotti, sotto l’occhio impietoso della telecamera, cadde dalle nuvole: «Non sapevo ». Disse che non se n’era mai accorto perché «quelli che ho conosciuto io erano qui in forma regolare» e ribadì che lui conosceva «molte persone che prestano il loro lavoro a titolo gratuito » ma certo, siccome c’era «una grave slealtà», adesso si sarebbe dovuto mettere un freno alla cosa. Quanto a Franco Marini, lui pure scomodato come ex sindacalista con l’aggravante di essere presidente di quell’aula in cui da mesi il senatore aennino Antonio Paravia denunciava la vergogna dei portaborse «sommersi», disse che lui «immaginava, non sapeva». E che il problema consisteva nel fatto che «non c’è una normativa» per regolare questo tipo di contratti e quindi ci voleva «una leggina, altrimenti questa situazione non si risolve».
Quattro mesi dopo, la situazione è quella che abbiamo detto. Alla Camera, dopo una serie di rinvii (il 13 maggio si erano messi in regola depositando i contratti dei propri collaboratori solo 105 deputati: uno su sei) è scaduta lunedì anche l’ultima proroga concessa ai colleghi riottosi dai questori, tra i quali l’ulivista Gabriele Albonetti pare intenzionato ad andare fino in fondo: d’ora in avanti potrà entrare solo chi è in regola. E al Senato la commissione Lavoro, presieduta da Tiziano Treu, sta varando la famosa invocata «leggina». Dovrebbe passare, dicono, all’unanimità. Il prezzo pagato a questa unanimità, però, è alto. Tra le affermazioni di principio e le volonterose definizioni di come dovrà essere il contratto («si applica la disciplina privatistica in materia di rapporto di lavoro subordinato, di collaborazione coordinata e continuativa o di lavoro autonomo»), manca infatti il nodo: chi non assumerà regolarmente alcun collaboratore continuerà lo stesso ad avere in busta paga i soldi (4.678 euro al Senato e 4.190 alla Camera ) per i portaborse? Sì. Per ora. «Non si è ritenuto di inserire questo punto nella legge», spiega Treu, «sarà sufficiente precisarlo nel successivo regolamento».
In arrivo quando? Boh... I precedenti, in questi casi, lasciano scettici. Così come è difficile passi la proposta alternativa di Franca Rame. La quale, pur prevedendo la rottura del contratto per giusta causa anche nel caso venga meno il rapporto di fiducia (un senatore post-fascista non può ritrovarsi un collaboratore comunista o viceversa, ovvio) mette dei paletti assai più rigidi. Invisi a chi è ormai insofferente alle regole stabilite per quanti non appartengono al Palazzo.
L’aspetto più sconcertante della leggina, che così com’è rischia di lasciare tutto come prima in attesa che la gente si distragga e non ci pensi più, è in un dettaglio. Dove si scrive che quelle famose norme indispensabili per inquadrare i collaboratori, la cui assenza ostacolava il corretto agire dei bravi parlamentari, ci sono già. Testuale: «Già il decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale del 16 marzo 1987, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale numero 89 del 16 aprile 1987, ha dato le opportune specificazioni » al punto che l’Inps adottò «un apposito codice contributivo, che rende possibile per i parlamentari instaurare un rapporto di lavoro subordinato con il proprio collaboratore».Venti anni sono passati, da quando fu deciso come evitare i portaborse «in nero ».
Venti anni. Con tutto il rispetto per Treu e la sua commissione: per l’aut aut «o il contratto o niente soldi per i collaboratori » dovremmo fidarci di un «regolamento » successivo? Ma dai..
1 commento:
People should read this.
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