29 giugno 2007
Michele Ainis
Settantaquattro liste alle ultime elezioni, ventitré partiti rappresentati in Parlamento: in questi numeri c’è un fallimento etico, oltre che politico.C’è l’emblema di un sistema ostaggio dei veti incrociati, dove a vincere è lo stallo, la non decisione. C’è il germe della rissa che intossica la nostra vita pubblica. Ma c’è anche la fonte di sprechi e disservizi, giacché ogni partito ha una corte da sfamare, cui distribuisce cariche e prebende a spese dell’erario. E c’è infine una crisi d’identità della società italiana. Perché l’identità è sintesi, non separazione. Questo vale per gli individui non meno che per i gruppi organizzati. Ciascuno di noi appartiene a un genere sessuale, vota a sinistra o invece a destra, mastica un dialetto regionale, ha una fede oppure non ne ha nessuna, è lavoratore o pensionato, giovane o già vecchio, single o coniugato. L’insieme di queste varie identità riflette la nostra immagine allo specchio. E l’immagine è una sola, a meno che lo specchio non sia infranto. Ecco, è uno specchio in pezzi quello che ci restituisce la politica, i mille pezzi di un’Italia che non sa ricomporsi, di una comunità senza comunione.Da qui la riforma elettorale come autentica emergenza nazionale. Ma da qui anche l’impossibilità della riforma, dato che in questo sistema i piccoli partiti sono decisivi per la sorte dei governi, e dato che non si può chiedere a una gallina di tuffarsi in pentola ad ali spiegate. L’impotenza genera a sua volta una paralisi: per venirne a capo dovremmo sciogliere le Camere; ma non possiamo farlo con questa legge elettorale, perchè il risultato sarebbe esattamente uguale al precedente. Insomma la democrazia italiana è nelle fauci dell’Uroboro, il mitico serpente raffigurato in un cerchio perfetto mentre ingoia la propria coda, simbolo del paradosso e della ragione ripiegata su se stessa.Tuttavia il referendum elettorale promosso da Segni e Guzzetta può tagliare la testa a l’Uroboro. Può farlo perché sposta il premio di maggioranza dalla coalizione alla lista più votata, e perciò condanna a morte i piccoli partiti, le troppe schegge della nostra identità impazzita. Nel suo orizzonte c’è dunque un sistema bipartitico, all’americana. Magari guadagnato con un salto un po’ troppo brusco, però quantomai efficace. Se n’è immediatamente accorto Mastella, che infatti minaccia crisi di governo se il referendum dovesse andare in porto. È dubbio che Passigli e gli altri critici del referendum, quanti dicono che il sistema dopotutto resterebbe inalterato, conoscano gli interessi di Mastella meglio di Mastella. È dubbia la buona fede di chi lo boccia argomentando che una buona legge elettorale va cucinata in Parlamento, quando il Parlamento ha ormai la cucina chiusa. Ma soprattutto è insopportabile l’ipocrisia con cui il sistema dei partiti sta accompagnando la raccolta delle firme.A due terzi del cammino i referendari ne hanno ottenuto 260 mila, sicché adesso resta un mese per toccare la quota di sicurezza di 600 mila. L’insuccesso è dunque un rischio sempre più concreto. Colpa dello spontaneismo del comitato promotore, dei suoi scarsi mezzi finanziari, del silenzio di mamma tivù. Ma è anche colpa, per l’appunto, dei partiti, a cominciare dai più grandi, che pure ne trarrebbero vantaggio. Soltanto che la loro ostilità non è dichiarata: con l’eccezione di Fini e Di Pietro, gli altri leader aspettano di vedere come gira il vento, mandano luogotenenti nel comitato promotore, ma intanto si tengono a distanza. Sicché dovremmo forse ricordargli una massima evangelica (Matteo 5,37): «Sia il vostro parlare: sì, sì; no, no. Il di più appartiene al male».
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