13 luglio 2007
di Lucia Annunziata
Sono favorevole a che Enrico Letta, Rosi Bindi e chi altro vuole (con un occhio a un ripensamento di Bersani e Finocchiaro) partecipino alle primarie di ottobre.Per una ragione in apparenza futile: le primarie alla fine operano con la stessa logica di un concorso di bellezza. A parteciparvi si coglie in ogni caso un risultato rilevante: chi perde ne esce comunque con una raccolta di voti, identità e pubblicità. Chi perde, insomma, può riprovare a fare Miss Italia, e nel frattempo è di certo solidamente installato come Miss Piemonte. Nota irriverente, ma fondata: in Usa, dove sono davvero il perno del sistema politico, le primarie vengono chiamate in gergo proprio così, il Beauty Contest. A ogni livello, dal più basso al più alto, vengono utilizzate dai vari politici per sondare le acque, saggiare la propria squadra, valutare il proprio appeal, farsi pubblicità. Per trovare insomma un proprio posto sulla mappa della politica. Non è un caso che gli aspiranti presidenti ogni volta (incluso oggi) si avvicinino alla decina. Ancora più chiaro è come questo meccanismo abbia funzionato per personaggi oggi celebri: il senatore John McCain, divenuto figura nazionale sfidando un Bush fortissimo (e che anche stavolta ripartecipa); Michael Bloomberg, sindaco di New York, che vuole presentarsi alle presidenziali come indipendente (non sono primarie ma quasi, vista l’impossibilità di vincere come terzo candidato), perché questo eleverebbe la sua figura politica. Lo stesso Barak Obama, pur senza certezza di vittoria, sa che la partecipazione di oggi è il modo più certo per costruirsi un trampolino di lancio in futuro. E così via, citando un ultimo caso esemplare di un candidato-nessuno che con una bella gara è diventato qualcuno: Howard Dean, sconfitto nelle primarie presidenziali del 2004, è poi divenuto il capo del Democratic National Committee, l'organo di direzione del Partito democratico americano. Tutto questo per dire che i dilemmi che attraversano la politica italiana, e alcuni politici direttamente, in queste ore, hanno poco a che fare con il destino individuale, con la lotta politica fra fazioni e, persino, con il destino del Partito democratico. Il modo in cui verranno interpretate le primarie in questo ingresso nella politica italiana deciderà, nientemeno, della natura del sistema stesso. Le primarie infatti non sono una espressione dei partiti. Al contrario, sono un mezzo ampiamente autonomo da essi; ne sono addirittura l'aggiramento. Tant'è che in Usa convivono con un partito «leggero», privo di forti apparati e identità, il cui leader spesso non si conosce a livello popolare e che di sicuro non è automaticamente il candidato presidente. Questo non significa che i partiti non siano importanti in America: anzi, sono una macchina di riferimento centrale, ma di una élite che si dedica alla politica a tempo pieno. Questa macchina è rilevantissima per costruire alleanze, ma non è decisiva: i candidati sono alla fine sempre e comunque scelti dal voto ampio dei cittadini. Il caso Clinton è esemplare di questa dinamica: il candidato Bill non sarebbe stato nessuno se non avesse lavorato nelle file del Partito democratico, per altro contribuendo a riformarne il profilo - ma non sarebbe mai diventato presidente se non si fosse cocciutamente sottoposto al voto popolare, presentandosi a primarie in cui non gli si attribuiva nessuna possibilità. Come si trapianta in Italia questo strumento? È evidente che su un sistema come il nostro, in cui a dominare sono partiti rigidi e pesanti, le primarie - come si vede fin da ora - hanno il potenziale di una carica esplosiva. Lo sa bene quel «guastatore» di professione che è il ministro Parisi, che da sempre utilizza le primarie come stecche di dinamite; ma lo sa ancora meglio la classe politica che gestisce questo sistema.Se si guarda infatti alle obiezioni che si fanno sul se, perché, come e chi debba presentarsi o meno alle primarie, sono fondate su argomenti che non riguardano davvero la selezione dei candidati, ma la conservazione degli equilibri interni dei partiti e della coalizione. Prendiamo ad esempio l’idea del «disorientamento», cioè quella teoria secondo la quale un candidato alternativo è possibile solo se ha una piattaforma alternativa, sennò «disorienta» gli elettori: in realtà una piattaforma alternativa non esiste - se ci fosse porterebbe l'aspirante contendente in un’area politica diversa. Nelle primarie si giudica invece l’interpretazione della stessa linea, si confrontano capacità personali, caratteristiche etiche e culturali di diversi approcci, si mette alla prova la capacità pubblica di gradimento e gestione dei candidati. Insomma, nelle primarie c'è un fattore umano fondamentale, che è fuori dei partiti, e che costituisce l'elemento intorno a cui si scrive il patto di fiducia personale fra elettore e eletto. Certo, grazie a questo contratto diretto, il partito diminuisce il suo controllo sul candidato. E questo è alla fine il dilemma vero che si sta sviluppando dietro la domanda «mi candido o meno». Tenere in campo un solo candidato, Veltroni in questo caso, nato per partenogenesi della attuale classe politica, è una garanzia di continuità per questa stessa classe dirigente. È un tentativo di sopravvivenza, legittimo e fatto in buona fede; ma il segno rimane quello, molto italiano, di regolamentare l'impatto di queste primarie, «aggiungendole» al sistema politico in vigore, facendo un qualche aggiustamento, così da produrre un’ennesima riforma-non-riforma, con magari qualche posto in più così da accontentare tutti. Ma i processi a metà non sono mai andati a buon fine: le primarie addomesticate fatte per Prodi, cui venne dato il voto ma non il totale consenso della coalizione, sono un esempio perfetto. Così come perfetto è l'esempio del modo con cui si è poi dovuti arrivare a nominare Veltroni. Viceversa, accettare fino in fondo il gioco alla fine rimette in giro tutti. Letta, Bindi e chi altro (ripeto: Bersani e Finocchiaro dovrebbero ripensarci) presentandosi fanno, è vero, uno strappo oggi con gli equilibri di coalizione, ma aprono una partita per un domani in cui possono tornare in campo anche un Fassino, un D'Alema, un Rutelli, insomma tutti gli attuali numeri uno, che sono troppo giovani - francamente - per pensare di fare o i Grandi Fratelli o i Padri della Patria.
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